Da 32 anni le Giornate del cinema muto di Pordenone pongono tutte le manifestazioni di cinema di fronte alla più radicale ucronia: l’epoca del muto, conclusasi “storicamente” tra fine anni ’20 e inizio anni ’30, ridiventa viva e presente. Poco importa che questa opzione presenti talvolta delle forzature (come l’inclusione di film che oggi ricalcano il muto, spesso solo nella maniera, o il dogma dell’evento musicale come canale verso lo spettacolo fruito al presente). La vera forza del festival sta nel far sentire una presenza molto più intensa, legata alla forza individuale di cineasti e presenze attoriali che ci arrivano a oggi travolgendo le cronologie (pur rimanendo il festival anche opera approfondita di ricerca storica).

Quest’anno il festival ha avuto in dono dal destino qualcosa che ha dell’incredibile. Un muto tardo, Too Much Johnson, realizzato nel 1938 da un cineasta tra i maggiori, Orson Welles, prima che la sua fama si affermasse con Citizen Kane (e qualche anno dopo l’esordio con un altro muto, Hearts of Age, che avrebbe meritato una riproposta), realizzato come parte cinematografica di uno spettacolo del Mercury Theatre e mai proiettato, è stato ritrovato: e dove se non proprio dietro l’angolo, a Pordenone? Al festival si assisterà perciò all’anteprima assoluta (o mondiale, il termine stavolta non è ridondante) di un film di cui l’autore stesso aveva perso le tracce, e che anziché finire al macero come le casse di Kane è approdato a Pordenone, con una geniale regia post mortem di Welles. Si è ritrovata insomma la Rosabella di Welles, come il doppiaggio italiano aveva teneramente ribattezzato Rosebud. Con la consulenza di Ciro Giorgini si è giunti all’identificazione certa dell’opera di cui si conoscevano solo tracce scritte, per esempio nei testi fondamentali del coproduttore John Houseman, che nel film compare nel ruolo di un Keystone Kop. Giacché si tratta di un film che ricalca le comiche sennettiane: in un certo senso come i muti di oggi ricalcano l’iconografia del cinema muto, salvo il fatto che se si è Orson Welles (o magari un wellesiano come Rogério Sganzerla) l’operazione può diventare geniale, di reale reinvenzione e non di sterile calco.

La destinazione teatrale da cui era nato il film di Welles non può non far pensare all’Entr’acte di Clair, la cui proiezione con la musica originale di Satie è stata qualche anno fa tra i vertici di tutte le edizioni del festival. Ancora una volta insomma Pordenone ritrova la quintessenza del cinema incuneato nell’evento teatrale: l’anno scorso era avvenuto con la splendida serata del Phono-Cinéma-Thèâtre, evento gioiosamente sacrale come invece mancò di essere la Passion de Jeanne d’Arc proiettata in chiesa, che smarrì la forza tragica del sacrificio contraddetto dalla regia dreyeriana oltre ogni appropriazione confessionale. Ma, a pensarci bene, anche quando sbandano le Giornate del cinema muto riescono a rendersi sintomo lungimirante: quindi non solo con le straordinarie proiezioni conclusive del mai dimenticato Griffith Project anticiparono il Lincoln di Spielberg, ma l’anno scorso financo con l’indebolito evento dreyeriano prelusero alla chiesa che vive le proprie incertezze col nuovo papato.

Il programma di quest’anno però, e non solo con il Welles di cui si è detto, sembra nascere sotto gli auspici migliori, e il direttore David Robinson si conferma un’ottimo orchestratore (più ancora che compositore) di programmi. Cominciamo dal manifesto del festival, che propone l’immagine di Anny Ondra, alias Ondráková, attrice ceca che approdò al grande Hitchcock a cavallo tra muto e sonoro (e il festival ne proporrà quasi come sigla il provino sonoro per Blackmail) e di cui vedremo film di una cinematografia centroeuropea meritevole di riscoperta, dove accanto a Anny compaiono figure come il regista e attore Karel Lamač. La personale arriva dopo quella di un’altra attrice slava che migrò in occidente, la russa Anna Sten, di cui nella precedente edizione del festival si videro meraviglie. Con Anny Ondra coglieremo quel filo intimo che nel cinema ceco unisce leggerezza e dramma, portando alle opere di grandi autori da František Čáp a Miloš Forman (e Ivan Passer).

Ma non sarà l’unico continente di cui il festival ci aprirà gli orizzonti. Un’altra rassegna ben trovata è quella dedicata al cinema svedese “dopo l’epoca d’oro”: detto così può far temere film minori, rilevanti solo per gli storiografi. Invece sappiamo che se Stiller e Sjöström furono sommi, i loro successori Molander e Sjöberg sono uno splendido ponte verso Bergman. Dei due conosciamo alcuni tardi film sonori, che vanno riscoperti, e perciò attendiamo con grandi aspettative i loro giovanili film muti. Il cinema svedese dell’epoca d’oro seppe diventare un tale concentrato dell’arte muta che un po’ tutto il cinema svedese, fino a Bergman e oltre, travolse gli stessi confini tra linguaggio muto e linguaggio sonoro, e tra forma e presenza fisica.

E, giacché accennammo alla personale di Anna Sten dell’anno scorso, quest’anno le Giornate prolungano la riscoperta del continente sovietico. L’anno scorso ci colpì molto Provokator di Turin, e quest’anno se ne vedranno gli altri due film superstiti, uno nella rassegna ucraina, l’altro nel Canone rivisitato curato da Paolo Cherchi Usai: a conferma di come le sezioni del festival sappiano riecheggiarsi e intrecciarsi. Lo stesso avviene con le due versioni di La madre, con il classico di Pudovkin nel Canone e la precedente versione di Razumnyi tra i restauri. Oppure coi felici intrecci di cinema d’animazione: la rassegna dedicata a quella sovietica s’intreccerà con omaggi a Otto Messmer, ai Fleischer e a Paul Terry. Come sappiamo, tra i meriti storici delle Giornate c’è un’attenzione costante verso il cartoon, a cominciare dalla riscoperta dell’universo Disney.

Altra cosa molto felice del programma è la prevalenza di film del muto più tardo, che è anche il momento più alto del muto. Ma ciò si accompagna nel programma a una presenza altrettanto importante del cinema delle origini, ovvero dell’altro polo maggiore dell’epoca muta.

Dal decennio intermedio tra i due poli, gli anni Dieci, si vedranno alcuni ritrovamenti non comuni: la scelta dei film italiani sembra quest’anno promettente, con un Viaggio in Congo realizzato nel 1912 da Guido Piacenza, una versione di I promessi sposi con la commediante Gigetta Morano nel ruolo di Lucia, e un Giuseppe Verdi nella vita e nella gloria realizzato nel centenario del musicista e restaurato per il bicentenario (con materiali dalle collezioni Attilio Giovannini e Carlo Montanaro, ma a nostro avviso con la discutibile scelta non-conservativa di omettere un inserto dai Nibelunghi di Lang che qualche proiezionista o collezionista interpolò inventivamente come repertorio operistico, travolgendo magnificamente anche la biforcazione Verdi-Wagner).

Altri territori in cui il festival s’inoltrerà sono quelli del cinema messicano (con tre programmi di film sulle rivoluzioni messicane, da Madero a Zapata e Villa), e dell’opera registica di Gerhard Lamprecht, che fu anche storico del cinema e inventore della Deutsche Kinemathek. Finora ne conoscevamo alcuni film sonori di epoca Weimar, brillanti film di ragazzi (più che per ragazzi) come Emil und die Detektive, di cui scopriremo felici anticipazioni nella sua produzione muta.

Ancora nel Canone si proporranno un Wellman con Louise Brooks (Beggars of Life), e il memorabile Scherben del romeno Lupu-Pick (e sul cinema romeno verrà presentato al festival l’epocale dizionario dei cineasti realizzato dopo decenni di ricerche da Bujor Ripeanu con la collaborazione di Dinu Ioan Nicula).

Non possiamo dimenticare tra i restauri le due versioni di The Blacksmith di Keaton, una regia della splendida Mabel Normand (che s’intrecceranno bene col film di Harold Lloyd alla serata finale) e una versione di Lucrezia Borgia che con regia di Oswald riunisce le massime presenze attoriali tedesche. Da segnalare inoltre un documentario sulla mitica Musidora.

E non è tutto: come a ogni festival che conti le cose si scopriranno vedendole.