Le recenti «Giornate del cinema muto di Pordenone», all’appuntamento storico della 40a edizione, sembrano avervi lavorato sul rapporto col tempo che è quintessenziale al cinema e che una manifestazione dedita a un periodo concluso quale l’epoca muta non può non sentire con particolare sensibilità. Come peraltro tutti i festival che non vogliono ghettizzare le retrospettive ma le considerano spettacolo per occhi vivi e cuori pulsanti. Con in più il fatto che il passaggio dal muto al sonoro non è certo una qualsiasi delle mutazioni nella storia del cinema, se ha potuto essere vista con sguardi così contrapposti, dall’amore per la purezza originaria (leggibile nel modo più perfetto nell’opera di quanti non giunsero al sonoro: Murnau, Lumière, Comerio…) alle contrapposizioni da critico di un Michel Mourlet («il cinema nasce col sonoro») passando per la sensibilità verso la desiderata presenza della voce in Genina, Pabst, Ozu, Dreyer, Griffith, Gallone… Nel festival appena finito la sezione più rivelatrice è stata quella sulle poche opere superstiti, tra muto e sonoro, del cinema coreano, non capolavori ma stupendi segni di un cinema in bilico tra realtà e avanguardia diffusa e quasi amatoriale.

Il festival ha messo a segno alcuni eventi circolari (tutt’altro che autorefenziali) quale il ritorno al cineasta cui venne dedicata la prima edizione, Max Linder, presentandone in anteprima mondiale la versione ricostruita dell’ultimo film, che come tutta l’opera di Linder è ammirevole per il suo essere un cinema comico che fa ridere poco. Si potrebbe confrontare la proiezione di un qualsiasi Linder con quella di un qualsiasi Chaplin, che lo elesse a modello, ma nella stilizzazione, non nel rapporto col pubblico: e infatti se nella sala che guarda Chaplin scatta ogni volta un’ilarità incontrollabile, la proiezione di Max, der Zirkuskönig (1924) ha suscitato una gelida ammirazione. Con in più l’imbarazzo che potevamo provare di fronte a un film inconcluso alla vigilia dellla tragedia reale (uccisione della moglie e suicidio) per le numerose scene in cui Linder maneggia armi da fuoco.

Circolarità ancora più spinta si è avuta con la proiezione di Erotikon (1929) del ceco Gustav Machatý con l’attrice slovena Ita Rina resa una dea dall’obiettivo di Václav Vích. Orbene, la sinora unica retrospettiva italiana del regista, pur tanto ammirato negli anni 30 dopo la proiezione di Estasi con Hedy Lamarr a Venezia, coinvolgendolo nel cinema italiano per Ballerine (le cui splendide rovine si possono ora vedere nel dvd edito da RHV), si è avuta proprio a Pordenone, e addirittura prima che nascessero le Giornate, in quel Cinemazero che le ha fondate con La Cineteca del Friuli. E oggi possiamo riconoscere in Machatý tutt’altro che un «formalista», bensì uno che sfida il corpo a rendersi immagine: forse chi l’ha capito meglio, assistendolo per Ballerine, è stato il non meno misterioso seppur «popolare» Giorgio Bianchi.

Non sono stati gli unici «ritorni» di questa edizione, con la riproposta di film già presenti in passate edizioni: dall’inaugurale Lubitsch (tuttavia vi si scontava la riduzione digitale di ricordati godimenti in pellicola) alla serata finale con Casanova (1927) di Alexandre Volkoff con Ivan Mosjoukine, dove invece ci si è rivelato in pieno un capolavoro di uno dei cineasti russi divisi tra patria e emigrazione, sui quali Pordenone ha offerto già programmi magnifici, rivelando la grandezza di Turzanskij, Strizevskij e del Protazanov di cui quest’anno si offrivano, con dubbia ma probante attribuzione, due «giapponeserie» con la misteriosa danzatrice-geisha Madame Hanako.

Questi due corti della Pathé russa prerivoluzionaria sono apparsi di grande fascino, facendoci sperare che il festival torni oltre gli assaggi a una rassegna organica di grandi cineasti quale è Protazanov. Intanto il Volkoff del Casanova ci è apparso in una tra le più belle riletture del personaggio, come forse anche Piero Chiara e Federico Fellini confermerebbero: un film di russi in esilio che è però una magnifica riflessione anche su rapporti di classe nel desiderio (dalla nobiltà iperrealistica, che Luchino Visconti poi elesse, di Rina De Liguoro alle imperatrici della finzione alla pescatrice Castellucci quale ultimo e più vero corpo promettentesi).

Davvero ammirevole poi la proposta di un’attrice-produttrice poco ricordata come Ellen Richter: a capo dei sette film proiettati, anche se talvolta di livello medio, è emerso un personaggio di donna sottilmente attenta alle proprie feticizzazioni fisiche, e infatti il frammentariamente conservato Le più belle gambe di Berlino è quasi una chiave per le molteplici inquadrature in cui in altri suoi film una controfigura doppia con gambe perfette la Richter. I cui film hanno anche una notevole forza di testimonianza di una concezione antitotalitaria, ben visibile nella sua rimontata Lola Montez e che insieme alle origini ebraiche segnò lo sfavore verso la Richter in epoca nazista.

Il programma di corti restaurati dalla Cineteca del Friuli ha rivelato almeno due capolavori: l’anonimo (attribuibile a Émile Vardannes) La mosca e il ragno e soprattutto Le bolle di sapone (1910) di Giovanni Vitrotti che insieme al suo magnifico Il polentone a Pont Canavese scoperto l’anno scorso a Bologna segnala in Vitrotti un grande cineasta tout-court, non solo un valido operatore.
La rassegna delle sceneggiatrici americane, tutt’altro che alla ricerca di «quote rosa», ha indicato una diffusa presenza di energie femminili nel cinema muto americano. Che Cecil B. DeMille avesse lavorato con Jeanie Macpherson si sapeva, ma qui si sono scoperte altre sue collaboratrici, e così del fratello William C. DeMille, e in parallelo dei fratelli John e Francis Ford.

Che cineasti spesso trattati a Pordenone, DeMille con una maestosa monografia, Ford con capolavori come Straight Shooting che invece (come per i Dwan sparsamente proiettati) facevano desiderare una retrospettiva, avessero tutti in comune tante collaboratrici, è una rivelazione, e il bello è che sia avvenuta anche con due capolavori immensi, Fool’s Paradise di Cecil DeMille, dalla fantasia spinta come in un Syberberg, e Kentucky Pride di John Ford, dopo il quale non si può dubitare che costui sia stato tra i cineasti più costantemente geniali, dai primordi alla vecchiaia della sua opera.

Colui che affabulava che i western muti si giravano non cambiando storie ma cambiando cavalli si rivela qui con uno sguardo (come in un Renoir o Rossellini oltre l’umano) sulle presenze animali che va oltre l’esigenza di procedere con la finzione. Il cavallo protagonista visibilmente zoppica per gran parte del film, ma Ford non l’ha cambiato, e lo contempla innamorato di una cavalla. E alcune delle bellissime didascalie (anche se la nota in catalogo vi cerca il pelo da politicamente corretto), come quelle della soggettiva del cavallo, sono oltretutto attribuite non alla sceneggiatrice Dorothy Yost ma alla montatrice Elizabeth Pickett!