Arrivano alla spicciolata, giorno dopo giorno portandosi dietro mesi di incertezze, marce forzate tra le montagne, viaggi al buio rinchiusi in un container o accovacciati nei cassoni di qualche camion. Poi la roulette degli sconfinamenti. Quelli più delicati in Iran, dove «la polizia spesso spara», o peggio in Bulgaria, terra di passaggio che a tanti ha lasciato il ricordo di violenze, pestaggi e minacce ad opera di agenti poco tolleranti verso i migranti. C’è chi dopo mesi fatica ancora a muovere il braccio preso a bastonate, un altro abbassa la t-shirt al petto esibendo due cicatrici, «è stato un poliziotto bulgaro, con il coltello» racconta. Sono soprattutto afgani e pachistani tra i 20 e i 30 anni, ne contiamo una quarantina sparsi sotto la tettoia dell’Ex fiera, oggi centro sportivo, in via Molinari ad un chilometro da piazza Risorgimento, il centro di Pordenone. «Ogni giorno o quasi arriva qualcuno di nuovo» e il Friuli ha saturato la capacità di accoglienza, assicura Luigina Perosa dell’Associazione Immigrati, è una dei volontari della Rete Solidale Pordenone, ombrello di organizzazioni che comprende un po’ tutti, «dagli anarchici alle parrocchie».

Ebbene sì, malgrado la lontananza dal Canale di Sicilia e dalle coste di Libia ed Egitto, anche il Friuli rappresenta una porta di ingresso per i migranti. Prima venivano accolti i richiedenti asilo di Emergenza Nord Africa, poi quelli di Mare Nostrum, ma «la situazione si è complicata a fine 2014», continua Luigina, quando il traffico si è spostato lungo la Via dei Balcani. Condizione durata fino a inizio 2016 con la sottoscrizione del deal del 18 marzo tra Ue e Turchia, e la concomitante chiusura della rotta balcanica. Ora gli arrivi di migranti continuano seppur ridimensionati, «in parte avviati in Italia attraverso il confine austriaco a Tarvisio» che come una trappola per topi lascia entrare, ma impedisce l’uscita.

Il caso della provincia di Pordenone, con 800 posti assegnati su altrettanti disponibili, rispecchia la situazione dei vicini centri di accoglienza friulani, come Gorizia e Trieste, dove la disponibilità è ormai esaurita, pertanto chi arriva finisce a dormire per strada o nelle tende al parco, in attesa di smaltire la pratica di identificazione, aspettando anche due settimane prima di «entrare in progetto (di accoglienza ndr)» e ricevere una sistemazione adeguata in qualche centro in Italia. La tettoia dell’Ex-fiera offre riparo dalla pioggia, ma i servizi igienici più vicini si trovano a 800 metri di distanza, al parco San Valentino. Le temperature sono piuttosto rigide per la stagione, quindi continuano le richieste di nuove coperte, oltre a medicinali, assistenza sanitaria, affiancamento nella gestione delle pratiche in questura, attività cui pensano gli operatori di Rete Solidale, spesso pagando di tasca propria una confezione di aspirine e per altre necessità.

Speranza Coccoli, energica volontaria è di turno in cucina. Il menù prevede uova sode, pane e pasta al pomodoro con curry. «Cerchiamo di arrangiarci al meglio. Noi della Rete pensiamo alla cena mentre a pranzo ricevono un buono kebab dalla Caritas», spiega Speranza. La distribuzione del cibo è autogestita. A breve si farà buio, e per i 40 di Pordenone inizierà l’ultima notte all’addiaccio, avvolti nelle coperte sul cemento e schiacciati contro la parete. All’indomani sarà predisposto il loro trasferimento in Veneto, regione che al pari di altre figura ancora sotto la quota di accoglienza assegnata. «I richiedenti asilo che dormivano fuori, hanno potuto tranquillamente raccogliere i loro pochi averi e salire nel pullman che dalla questura li ha portati in una struttura fuori Pordenone», si legge in un comunicato della Rete Solidale. Il trasferimento è maturato a seguito di una riunione tra associazioni e questura, seguita da una manifestazione sabato in piazza Risorgimento promossa per ribadire un principio base «nessuno deve dormire in strada». In realtà però il disagio rimane. «Si tratta di un problema strutturale – conclude Luciana – a Pordenone serve un centro di prima accoglienza per le persone in attesa di essere ammesse in progetto».