A un passo dalla XL edizione, che ci si augura senza limitazioni, il trentanovesimo appuntamento delle Giornate del cinema muto di Pordenone ha subito fortemente il trauma che tutti viviamo, e dunque la «limited edition», che da oggi prosegue per i consueti otto giorni, sarà interamente su MyMovies, con programma ristretto a uno o due appuntamenti giornalieri oltre agli incontri e i commenti di contorno.
Per chi tuttavia si sorprendesse che, anche dopo gli azzardi in presenza del Cinema Ritrovato di Bologna e della Mostra di Venezia, le Giornate abbiano mantenuto la rigorosa opzione online, va sottolineato che le scelte inverse di Bologna e Pordenone sono perfettamente coerenti col percorso preso da tempo dalle due manifestazioni: la proliferazione di sale e programmi a Bologna, in una sfida allo spettatore a vivere contemporaneamente più vite, aveva visto reagire Pordenone con la scelta sempre più accentuata di escludere eventi in contemporanea, affidandosi a una «community» di spettatori che troppo soffrirebbero del perdere qualsiasi tassello del programma. E allora, in un momento in cui certamente molti potenziali frequentatori da ogni paese sono impossibilitati a raggiungere il festival, come tradirli godendosi un programma completo in loro assenza?

A distanza
Si è scelta dunque la via di un programma ristretto tutto fruibile a distanza. Impossibile quindi includervi sezioni estese (peraltro da tempo troppo poco presenti rispetto ai primi anni delle Giornate verso la cui impostazione tendenzialmente monografica confessiamo di nutrire parecchia nostalgia), e pertanto solo programmi singoli. Lo spunto è perlopiù il lavoro di recupero delle molte cineteche amiche del festival: e se negli anni scorsi ristampe e restauri su pellicola si alternavano alle tracce digitali, stavolta la pellicola è il fuori campo assoluto di un presente universalmente digitalizzato.
Ma riteniamo che le scelte di programma abbiano saputo vivere il sintomo della perdita, disseminandosi di una vena malinconica che ben s’intreccia anche ai temi comici.

Diciamo subito che quest’anno il festival, che così spesso ha saputo toccare figure e momenti del comico muto, vive due lutti di eccezionale gravità: sono morti due suoi passati frequentatori, che sono forse i due massimi conoscitori dello slapstick, lo svedese Bo Berglund e il ceco Petr Král. Entrambi incarnavano lo spirito del loro paese, la vena tragica nel vivere il comico, ed entrambi erano apolidi: il secondo, ottimo poeta, visse l’esilio a Parigi dopo la repressione della primavera praghese, scrisse magnificamente di Roscoe Arbuckle (su cui quest’anno esce un nuovo libro) nell’indimenticata rivista Griffithiana fondata da Angelo Humouda. La morte di Král si aggiunge a quella di due massimi cineasti cechi, Ivan Passer e Jirí Menzel, lasciando ormai a Karel Vachek, che ora torna alla regia, il testimone della tragicomicità del cinema ex-cecoslovacco, paese che non a caso possiede forse l’archivio dalla più vasta collezione slapstick, per anni animata dal Premio Mitry Vladimir Opela, il cui volto sorridente ci ha sempre ricordato quello di Dubcek.

Da qui arriva quest’anno uno dei più imperdibili appuntamenti delle Giornate, il corto Ceské hrady a zámky (Castelli e palazzi cechi) che parte come un documentario ma diviene una fiction scatenata, diretta e interpretata nel 1916 dall’attore di varietà Karel Hašler, la cui uccisione a Mauthausen nel 1941 è tra i segni d’inquietudine più forti del programma.

Rarità cinese
L’altro è indubbiamente nel raro film cinese del 1935, Guo Feng, storia di due sorelle interpretate da Li Lili e dalla mitica Ruan Lingyu al suo ultimo film. E infatti quello che doveva essere il monumento dell’etica nazionalistica del Kuomintang, arcaicamente contrapponente la campagna alla città, diventa soprattutto la traccia reale della sconfitta di Ruan Lingyu, divisa tra uomini che trasformavano l’amore in morte. Basterebbe la presenza di questi due film a raccomandare un programma. Ma altre tracce di destini perdenti lo attraversano: nell’americano When Lights Are Low (e direi che questo attraversare le «luci basse» sia emblematico) accanto al divo esotico Sessue Hayakawa appare, cinesizzata, Gloria Payton, meteorica diva sul viale del tramonto. E della danzatrice Rita Sacchetto, ritiratasi nel 1924, si vedrà uno dei rari film superstiti, il danese Ballettens datter di Holger-Madsen, regista la cui opera si è intersecata con quella di Dreyer. E dal cinema italiano La tempesta in un cranio, regia del veterano Campogalliani con Letizia Quaranta, a proseguire la riproposta di Bonnard dalla stessa Cineteca Italiana di Milano.

Pabst
Di due massime icone, Brigitte Helm e Mary Pickford, si vedranno due film insoliti: della seconda un Cecil B. DeMille non d’immediato successo, A Romance of the Redwoods. E un altro massimo regista ci attende con Brigitte Helm in Abwege, quel Georg Wilhelm Pabst che dopo essere stato esaltato all’epoca del muto fu vanamente «ridimensionato» dalla critica successiva, ma oggi ogni film di Pabst ci sorprende, essi si somigliano per l’accanimento nel far susseguire inquadrature che sono successioni di enigmi. Difficile decidere qual’è il momento più alto di Pabst, se nella Lulu con Louise Brooks (a ogni visione più emozionante) o nel postbellico film sulla morte di Hitler, o nei suoi due film apolidi girati in Italia. Certamente questo film coevo della Lulu, girato nel 1928, non mancherà di sorprenderci.

Laurel & Hardy
E in un momento in cui l’opera di Stan Laurel e Oliver Hardy è viva più che mai, le Giornate ne trattano la preistoria: due film con Hardy e tre con (o di) Laurel, tra il 1916 e il 1925, fino a lambire la nascita della coppia col ruolo determinante di Leo McCarey. In questi cinque film si scoprono altre importanti presenze incrociantisi coi due, ancora «celibi»; Larry Semon (Ridolini), G.M. Anderson (ovvero Broncho Billy, il massimo cowboy del muto con Tom Mix e W.S. Hart), mentre la regia di Laurel del 1925, Moonlight and Noses, è una summa di presenze sostituentisi al qui non interprete Laurel (e all’ancora assente Hardy): la coppia comica di Clyde Cook e Noah Young, il deuteragonista (poi in tantissimi Stanlio e Ollio) James Finlayson, la Fay Wray pronta a gridare davanti a apparizioni mostruose. Già prodotto da Hal Roach per la Pathé, questo Laurel dietro la macchina da presa va riscoperto a conclusione di una cinquina di «Laurel or Hardy».

Se questo programma concluderà un festival di sobrie ma sicure rivelazioni, lo apre invece un programma di film di viaggio e di vacanze, volutamente contrapposto da Jay Weissberg ai viaggi impossibili di questo momento (quelli che impediscono agli affezionati di raggiungere Pordenone): viaggi tra Cairo e Trieste, il primo emblematico per la Cineteca del Friuli che non cessa di aprire il suo sito con la scritta «Verità per Giulio Regeni», l’ultimo una sfida anche cronologica perché non di film muto si tratta, ma di rushes mute girate nel 1939 per un film sonoro perduto. Una Trieste di bagnanti sorridenti, con insegne fasciste sulle spiagge che già preludono all’imminente guerra. Per chi scrive, questo film s’incontra con un altro sguardo ritrovato su Trieste, scoperto in questi giorni a un piccolo festival ad Aurisina, frazione di Trieste (Le energie dei luoghi), un sorprendente capolavoro diretto da Gianni Alberto Vitrotti e Tino Ranieri, Il Carso, un mondo di pietra che nel 1961 giunge al Castello di Miramare come soglia cittadina su cui si apre il film del 1939.