Esperimento interessante quello tentato ieri sera nella sede della casa editrice Laterza. Mettere a confronto gli argomenti di sinistra radicale della politologa Chantal Mouffe, che presentava il suo Per un populismo di sinistra, e il pragmatismo del rappresentante della sinistra moderata considerato, negli anni finali del centrosinistra di governo, il campione del cedimento alle politiche di destra, Marco Minniti. Per le sue posizioni su questioni ad alto impatto emotivo – la sicurezza, l’immigrazione, considerate facce della stessa medaglia ben prima del decreto Salvini – all’ex ministro dell’interno è capitato di essere indicato come «populista». Poi ha scritto un libro dal titolo Sicurezza è libertà e così ha spiegato di non sentirsi offeso dalla definizione. L’esperimento di ieri sera però non può dirsi riuscito, se non nel senso che ha fatto venire fuori le differenze.

Per Mouffe, infatti, l’azione politica contingente, in quello che definisce «il momento populista», deve partire dalla «costruzione del popolo». Che significa l’indicazione di una prospettiva di sinistra come risposta alle domande delle masse popolari, impoverite dall’egemonia neoliberista e dal fallimento delle social democrazie. Si spiega con un esempio: ai calpestati dalla globalizzazione Marine Le Pen indica come responsabili di tutto i migranti. Costruisce così il suo popolo. In origine, argomenta Mouffe, le istanze populiste sono istanze democratiche, ed essenzialmente due: «Redistribuzione della ricchezza cioè uguaglianza e avere più voce in capitolo». Sono la vera «resistenza contro la post politica», definita come la politica dove non ha più senso scegliere tra un partito o l’altro perché le ricette sono identiche, quelle neoliberiste. Mouffe spiega che andare all’origine delle istanze del populismo anche di destra è più utile che fermarsi ad accusare di neofascismo tutto quello che non si comprende. Come – cita – i gilet gialli.

Minniti si preoccupa invece di rispondere proprio a quelle che Mouffe considera le manifestazioni finali del fenomeno populista. Dice che «la sinistra non deve biasimare sentimenti come rabbia e paura» se vuole recuperare la «rottura sentimentale con il popolo». Più che di «definire», e conseguentemente mettere in moto, un popolo, mette l’accento sull’esigenza di tranquillizzarlo. Il solco tra le due analisi appare in piena luce quando Minniti definisce come «nazional populismo» il populismo di destra, spiegando che le grandi sfide della modernità – l’esempio che fa è quello della questione ecologica – non possono che essere giocate su un terreno sovranazionale. L’analisi di Mouffe, la sua spinta alla «costruzione» di un popolo che possa essere la base di un populismo di sinistra, si muove al contrario tutta all’interno dei confini nazionali. E all’interno anche, è interessante notare, «della cornice democratica liberale».

Si presta così alla critica, ascoltata ancora ieri sera nel corso del dibattito coordinato da Nello Preterossi, di Gaetano Azzariti. Secondo il quale la «costruzione del popolo» può rivelarsi «fragile», «priva di basi materiali», più simile cioè alla «costruzione di una base elettorale» per avventure nelle urne di breve durata. «Il punto cieco della sinistra – per il costituzionalista Azzariti – da quarant’anni è il nodo istituzionale» e il «rischio della manipolazione dall’altro della sovranità popolare» è sempre in agguato. Perché è bello pensare, con Mouffe, che la spinta del populismo può portare a una «radicalizzazione della democrazia». Intanto però dobbiamo fare i conti con la versione a 5 Stelle del referendum propositivo.