Tra i tanti commenti che si affollano sul voto nelle città scelgo di partire da quello di Ilvo Diamanti, che ha parlato di «tripolarismo imperfetto» , di forze politiche tutte piuttosto sradicate dal territorio (compresi i 5 stelle, almeno per ora), di un cambiamento «appena cominciato».

Se guardiamo alle grandi città italiane i casi di Roma, Napoli, Torino, Milano, Bologna parlano linguaggi molto diversi, e sul piano generale colpisce che nella maggioranza dei casi le vecchie amministrazioni siano state comunque sostituite, quale che fosse il loro colore.

L’affermazione eclatante delle candidate grilline a Roma e Torino può far pensare a una conferma della montante marea di protesta e populista.

Eppure il profilo e l’immagine di queste due donne suggerisce per il loro successo anche qualcosa di diverso : al fattore femminile si aggiunge un’idea di garbo e di concretezza che in parte spiega – insieme alla spinta contro il Pd di Renzi – la crescita per loro di voti di destra e moderati.

Ma più che una analisi del voto vorrei formulare qui un auspicio, forse del tutto illusorio: che le scelte delle (poche) persone che hanno votato per cambiare, e immagino aspettandosi migliori politiche di governo locale e nazionale, sommate al messaggio delle molte che al voto hanno rinunciato esprimendo una generale sfiducia, inducano chi fa politica a lasciare al più presto da parte le facili formule populiste.

Intendendo con questo termine abbastanza inflazionato la tendenza a raccogliere quelli che appaiono come i sentimenti e le pulsioni più radicate nel popolo , specialmente quando si manifestano in modo negativo, aggressivo, magari indirizzate più contro la «casta» dei politici e le «invasioni» dello straniero che contro i veri detentori dei poteri che condizionano le nostre vite.

Lo dico soprattutto pensando a molti amici di sinistra, che forse attratti dalle brillanti teorie di un Laclau sulla ragione populista, vedono in una declinazione a sinistra di questi linguaggi la possibile via di uscita dall’ impasse descritta da un lato dal «renzismo», dall’altro dai risultati assai deludenti delle liste che si sono presentate in esplicita e dura contrapposizione al Pd.

Ma la cosa riguarda prima di tutto proprio Renzi e il Pd. Apprenderanno la lezione del voto? Un articolo e un titolo sul Corriere della sera di ieri sembrava resocontare la volontà di perseverare nell’errore: «Ho rottamato troppo poco», «devo mettere da parte la vecchia guardia» ecc.

C’era sicuramente un popolo nel Pd stufo della «vecchia guardia» che non vinceva mai e diceva sempre meno «cose di sinistra», Renzi ne ha raccolto il consenso col suo discorso populista. Ma quella spinta propulsiva è già esaurita, almeno dal voto delle regionali.

Dichiarazioni successive del premier sembrano correggere un po’ il tiro: ha riconosciuto nella vittoria dei 5 stelle la richiesta di cambiamento piuttosto che la sola protesta, ha detto di volere una discussione vera nel suo partito, e persino che il Pd deve «aprirsi al nuovo» ma «senza scadere nel nuovismo». Vedremo.

Infine il voto carica ai miei occhi di responsabilità anche tutti coloro che annunciano il No al referendum costituzionale. La possibilità di sconfiggere per questa via il presidente del consiglio e il suo governo appare sempre più consistente. Ma è lecito chiedersi per quale prospettiva si combatte questa battaglia? Sia sul piano concreto delle riforme istituzionali, sia su quello del governo e del sistema politico?

O basta dire, un po’ populisticamente, che si vuole sventare la svolta autoritaria del dittatore di turno?