Dunque le ultime notizie di ieri relative alla Banca Popolare di Vicenza sono quelle che la Bce ha «certificato» che ben 58.000 clienti dell’istituto veneto – e tra questi tra operai, pensionati e casalinghe – sono stati fatti passare nei documenti ufficiali, a loro insaputa, come investitori sofisticati a cui si sono così potuti vendere i titoli della stessa, altamente rischiosi, mentre nello stesso giorno un risparmiatore, che aveva perso tutti i suoi risparmi collocati a suo tempo nella banca, si è tolto la vita.

I responsabili del settore, i politici, i media, ci hanno raccontato a lungo, dopo la scoppio della crisi del 2008, che le banche italiane, al contrario di quelle degli altri paesi occidentali, non avevano problemi di sorta. Più di recente, di fronte alla scoperta che il nostro sistema si trovava di fronte a crediti in affanno per un totale di circa 360 miliardi di euro, pari quasi al 20% del totale dei prestiti, le varie consorterie dominanti hanno cercato di cambiare musica. Si è così cominciato a dire che era tutta colpa della crisi, che aveva colpito un settore che per altri versi sarebbe sano. Ma la verità è che esso sta ora cercando di uscire anche da «decenni di corruzione, regolamentazione inefficace, cattiva gestione», come commentava nei giorni scorsi un articolo del Financial Times.

Vogliamo così ripercorrere brevemente sotto questa luce, oltre a quella della BPV, anche le vicende del Monte dei Paschi di Siena e dell’Unicredit.

Monte dei Paschi
Le difficoltà della banca senese hanno veramente poco a che fare con la crisi.
Ricordiamo che da parte dell’istituto sono stati a suo tempo concessi prestiti ad importanti personaggi politici di tutti i colori, nonché ad amici, alleati e imprenditori di dubbia lega. Ad un certo punto, è stata inoltre acquistata per 10 miliardi di euro la Antonveneta, quando era già stata ceduta qualche mese prima ad un gruppo spagnolo per soli 6,5 miliardi. E accenniamo soltanto alla sottoscrizione dei contratti derivati con una banca giapponese nel 2009. Oggi l’istituto ha ancora in carico crediti in sofferenza per circa 23 miliardi al netto dei fondi rischi.
Quello che il caso mostra, comunque, è che né i consiglieri di amministrazione, né gli alti dirigenti, né il collegio sindacale, né gli azionisti, tra i quali spicca la Fondazione del Monte, né la Banca d’Italia, né la Consob, né l’ABI, né i politici locali, né quelli nazionali, di governo e di opposizione, né la stampa, né il Parlamento si sono accorti di nulla e questo per molti anni.

Banca Popolare di Vicenza
Il caso della Banca Popolare di Vicenza appare, per alcuni versi, ancora più grave. Durante gli anni diverse persone hanno mostrato di capire che qualcosa non andava per il verso giusto, ma questo non è servito a nulla e le voci che osavano esprimere qualche dubbio sono state ignorate. Il nostro paese ha una capacità rilevante nel coprire, quando fa comodo, i misfatti.

Anche l’istituto guidato da Gianni Zonin offriva in abbondanza prestiti a soci ed amici. In questo caso comunque con una variante: i soldi venivano prestati in cambio dell’acquisto di azioni della banca, peraltro con garanzia di riacquisto o di rendimento. Un tale tipo di operazioni verrà alla fine in qualche modo imposto anche ai risparmiatori, ma questa volta senza clausole di favore. Il valore del titolo, che negli ultimi anni era certificato da professionisti esterni “indipendenti” come pari a 62,5 euro, è oggi di 0,1 euro.

Al contrario del caso precedente, nel corso degli anni non sono certo mancati i campanelli di allarme sulla situazione reale. Dal 2001 ci sono stati vari esposti, ispezioni della Banca d’Italia, inchieste della Procura. Ma la banca ne uscirà sempre indenne, anche attraverso una corruzione capillare di magistrati, funzionari della Banca d’Italia, professionisti, diversi dei quali verranno assunti dalla banca o otterranno incarichi di consulenza.

Unicredit
E’ il terzo caso che vogliamo ricordare. Non troviamo episodi da codice penale, ma delle rilevanti difficoltà procurate da un management non all’altezza della situazione. L’istituto era nel 2004 uno dei più redditivi d’Europa. Così l’amministratore delegato di allora, Alessandro Profumo, avvia un piano di espansione molto ambizioso in Italia e all’estero. Egli crea in poco tempo una grande impresa rivolta verso il Centro e l’Est-Europa. Verrà poi in Italia lo sconsiderato acquisto di Capitalia, mossa apparentemente motivata dalla necessità di reggere la concorrenza di Intesa San Paolo.

Ma la situazione si deteriora ben presto, complice anche la crisi, che in questo caso funziona da circostanza aggravante. Nel 2010 Profumo sarà così sostituito da Ghizzoni; seguono tre aumenti di capitale, mentre le partecipazioni vengono svalutate di 14 miliardi di euro e mentre i non performing loans salgono a 84 miliardi. L’ultimo piano di sviluppo varato nel novembre 2015 non convince il mercato perché, tra l’altro, non dice come verranno smaltiti i crediti in sofferenza e come verrà aumentata una redditività che appare molto bassa, mentre il management respinge un possibile ulteriore aumento di capitale pur valutato come necessario da molti esperti.

Nel maggio del 2016 l’amministratore delegato è alla fine costretto a dimettersi. Ma, incredibilmente, la nomina del nuovo capo azienda, e per di più in un momento così delicato, viene rimandata di quasi tre mesi, mostrando al mondo una mancanza assoluta di capacità di programmazione, oltre che una scarsa concordia tra i principali azionisti. Intanto il valore in borsa del titolo si è ridotto ai minimi termini, mentre la necessità di un aumento di capitale di almeno 5 miliardi di euro diventa sempre più evidente. Sarà interessante vedere chi lo sottoscriverà.

I casi indicati sono soltanto alcuni tra quelli che mostrano con evidenza che i mali del sistema bancario italiano sono ascrivibili solo in parte alla crisi, che semmai ha funzionato da detonatore di una situazione più complessa, fatta di corruzione, cattiva gestione, assenza totale di controlli, convivenze occulte con la politica.
Così oggi il sistema, mentre pena a trovare le risorse finanziarie per far fronte alle grandi perdite su crediti e agli aumenti di capitale qua e là necessari, deve peraltro cercare di portare avanti un profondo rinnovamento negli uomini e nei sistemi di gestione, nonché nell’organizzazione dei controlli da parte delle autorità preposte; un compito forse impari.

Le necessità di rinnovamento si scontrano in effetti con un quadro istituzionale e della società civile che appaiono molto compromessi.
Ci vorrebbe un deciso intervento pubblico che ad esempio, nazionalizzando il Monte dei Paschi, potrebbe farne un perno fondamentale di una nuova politica del credito, ma con l’attuale governo non c’è alcuna volontà di andare in tale direzione.