Si rischia l’azzardo del luogo comune, ma tanto vale correrlo subito, con dichiarazione preventiva: il logo fa la mostra. Chi azzecca un’idea forte e comunicativa, che costringa l’epitomica concentrazione di segni in un gioco di rimandi aperto ha già impostato bene il proprio lavoro. Se intitoli una mostra Rock the Mountain! e l’immagine che adotti rappresenta, appunto, una montagna importante, il Cervino, ma solcata dal raggio di sole che attraversava il prisma, per uscirne come spettro cromatico scomposto in Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, hai già fatto buona comunicazione. Rock the Mountain! poi gioca con l’ambivalenza del quasi biblico «scuotere le montagne», e con il fatto che qui si fa del rock con le montagne. E non solo rock: c’è anche l’elettronica, il soul, la canzone di Broadway, la musica da soundtrack. In ogni caso le montagne funzionano da sfondo, paesaggio, luogo dell’anima e del corpo, simbolo, icona, segnale, emblema: si potrebbe continuare. Ma si approderebbe comunque qui, a questa mostra: perché fino a ora non se l’era pensata nessuno una ricognizione sui rapporti tra la nervatura «popular» della musica trionfante nel mercato del secondo Novecento, nella musica rock e dintorni, appunto, e le montagne.

ATTO DI CORAGGIO
Ed è un bell’atto di coraggio e di azzardo creativo che il Museo della Montagna di Torino, sede in Piazzale Monte dei Cappuccini 7, si sia imbarcato in questa splendida ascensione simbolica fatta di tranquille passeggiate da trekking, e di mozzafiato passaggi impossibili a corda doppia, sull’orlo del precipizio semantico. Rock the Mountain! La montagna nell’iconografia della musica pop ha inaugurato il 17 settembre e andrà avanti fino al 17 gennaio 2021 a Torino. Poi proseguirà a Trento, Palazzo Roccabruna, nei mesi di aprile e maggio, in occasione del 69° Trento Film Festival. I curatori della mostra sono Daniela Berta, che dirige il museo stesso,e ha realizzato anche schedatura e ricerche iconografiche, e Paolo Ferrari, storica firma del giornalismo musicale italiano, con profonde competenze etnografiche, attento osservatore e studioso di nuove e antiche tradizioni, per dirla con Hobsbawn. Che così ricostruisce la genesi di Rock the Mountain!: «L’idea prima è stata di Berta e del suo vice, Marco Ribetti. Che si sono ritrovati tra le mani il poster del tour dei Rolling Stones del 1976 con la band ritratta in un collage come se scendesse di corsa dal Cervino. Lì si è accesa la scintilla. La ricerca condotta è stata sostanzialmente estetica, i miei gusti personali in materia musicale poco ci sono entrati. Anche se la mia vocazione reggae e world music emerge, in fondo: Lee «Scratch» Perry tra i ghiacci della Svizzera dove aveva trasferito il suo laboratorio sonoro, i Tinariwen ritratti con la catena del Tassili, sud est algerino, simbolo di resistenza Tuareg ne sono gli esempi più espliciti. Ma non si potevano tralasciare Heidi con i pascoli e Mazinga col Monte Fuji. Devo dire che all’inizio abbiamo provato a ragionare secondo quello che, almeno in apparenza, pareva il percorso più probabile, ovverosia una sorta di narrazione cronologica. Scartata ben presto, non c’erano segnali in tal senso di evoluzione nell’uso del soggetto “montagna” sulle copertine: A Better Land di Brian Auger Oblivion Express è del 1971, ma l’illustrazione sembra cugina prima di We Are the Night dei Chemical Brothers, e così via. A quel punto siamo passati di necessità alla divisione in sezioni tematiche, le “visioni” spesso lisergiche, come nel caso degli Yes, o deliranti come i Deep Purple di In Rock, letteralmente scolpiti nella roccia come i presidenti degli Stati Uniti. Gli scenari, come lo scatto fatto da Kanye West alla catena del Teton Range, nelle Montagne Rocciose, e finito sulla copertina di Yé. Lo sport, e al top c’è David Lee Roth che nel 1988 per Skyscraper tentò davvero di raggiungere il cielo arrampicandosi su una parete dell’Half Dome, nel parco nazionale di Yosemite: lui, appassionato di arrampicata, il fotografo e l’immancabile guida. Con tutti i problemi del caso. E ancora, sezione colonne sonore, dominata dal gioiello di Moebius per la soundtrack del film La trace, 1983 di Berard Favre realizzata da Nicola Piovani e Marc Perrone, la sezione esplorazioni. Il Cervino è la star della mostra: dai Depeche Mode a Goldfrapp, la sua silhouette ha sedotto così tanti artisti da valergli una sezione a parte L’allestimento, curato da Andrea Lerda e Marco Riberti ha visto anche la collaborazione degli studenti del corso di Interior Design delI’Istituto europeo di design, Yed. La loro passione e la loro curiosità ci hanno fatto capire una volta per tutte che il ritorno del vinile non è un fenomeno di nicchia ma una fase del rapporto tra noi e la musica che sta penetrando in profondità. Tutto peraltro è già disponibile su caisidoc.cai.it, il sistema documentario dei beni culturali del Club alpino italiano».

ARRIVANO GLI ELLEPÌ
L’ellepì con copertina colorata, da quando è nato(1948) ha radicalmente cambiato il modo di fruire la musica: da allora, e per sempre, ancorata a quell’immagine specifica scelta, capace di catalizzare, potenziare, lasciar intuire molto altro, oltre la sequenza di note che si andranno ad ascoltare. Se la musica è arte di per sé asemantica, cioè priva di un significato discorsivo, ecco che l’intervento della cover colorata crea un cortocircuito che zampilla scintille di senso disparate, tanto più suggestive, quanto più, nelle note rock soprattutto, il target da raggiungere sa esattamente cosa attendersi, e vuole un quid di mistero in più. Dunque le copertine «tematiche», come quelle dedicate alla montagna, saranno da intendersi per tutta una ragnatela di sotto-testi iconici che rafforzeranno quanto l’ascoltatore si attende. Rock the Mountain! è questo, esattamente: una ricognizione, per così dire, dietro l’arazzo, dietro il tappeto: dove la conta e l’esplorazione sistematica dei nodi e dei fili lasciati a pendere restituisce senso alla stratificazione di contenuti veicolati dall’immagine in copertina. Ad esempio, il filo della storia, che riappare dove meno te l’aspetti: non si spiegherebbe sennò, perché nella California libertaria fine anni Sessanta della «Summer of Love», apparentemente tesa a ribaltare con spallate formidabili tutto l’assetto di valori, convinzioni, pratiche di vita borghesi, l’estetica art deco e liberty entri prepotente nei manifesti che annunciano concerti ad alto tasso di erbe profumate, e divagazioni strumentali che facevano a pezzi i tempi «giusti» dei concerti borghesi: si pensi ai Grateful Dead. Ma si pensi anche, e qui torna con precisione Rock the Mountain!, al segno profondo della storia che riemerge sula memorabile cover «montana» degli It’s A Beautiful Day, 1969, spesso citata come una delle più belle della storia del rock: è un particolare da Woman on the Top of a Mountain di Charles Courtney Curran,1912, eccellente pittore specializzato nella raffigurazione di belle ragazze in scenari idillici. Ecco creato, nella frazione di secondo che lo sguardo ci mette a identificare quell’immagine tranquillizzante, il cortocircuito tra la musica del gruppo psichedelico che «manda in alto» («High»: il gergo che vale anche per chi assapora gli effetti della cannabis) e l’altezza confortante della vetta naturale visitata dalla bellezza in fiore.

DIPINTI
Discorso che potrebbe valere anche, mutatis mutandis, e a rovescio, per i contemporanei londinesi Fat White Family, che per Serfs Up! scelgono il dettaglio di una veduta delle Alpi bernesi da un dipinto del 1823 conservato nel Musée d’Art e d’Histoire di Neuchâtel: è Le grand eiger vu de la Wenger di Maximilien de Meuron, pittore romantico svizzero specializzato proprio in paesaggi montani. Il contrario esatto del «weird folk» condito di schegge taglienti psichedeliche, di country music in crisi di coscienza, di bizzarrie misantrope e sghembe della band. Funziona, sempre, per dirla con i gloriosi Pgr di Zamboni e Ferretti, (che a loro volta citavano il grande Silvio D’Arzo), se hai ricercato «montagne fin quante ne vuoi».

 

DAL CATALOGO

Caravan
In the Land of Grey and Pink (1971, Deram)
Considerato da molti l’album migliore della band, fondata a Canterbury nel 1968, è reso visivamente inconfondibile dalla cover con paesaggio illustrato ispirato ai mondi di J.R.R. Tolkien, noto soprattutto per Il signore degli anelli: una visione favolistica e incantata perfetta per accompagnare il genere di espressività melodica peculiare dei progressive Caravan. L’illustrazione è opera di Anne Marie Anderson; design e art direction sono di Joe McGillicuddy-ROC Advertising. Il live tenuto nello stesso anno dell’uscita dell’album è stato edito nel 2019 con un’immagine che richiama il concept originario solo nel mantenimento della presenza della montagna e, ovviamente, nella declinazione nei colori del rosa e grigio del titolo.

Radiohead
Kid A (2000, XL Recordings)
Impostasi a livello planetario con il precedente OK Computer, la band britannica spiazza tutti con un album differente. Per la realizzazione della copertina viene confermato l’illustratore di fiducia del gruppo, Stanley Donwood, titolare del ruolo a partire dal 1994, quando il suo ex compagno di Università Thom Yorke, leader dei Radiohead, gli aveva commissionato l’artwork dell’EP My Iron Lung. Lo stesso Yorke collabora alla creazione delle copertine e del materiale grafico con lo pseudonimo di Dr. Tchock, ma del resto Donwood in realtà si chiama Dan Rickwood. Le opere destinate a illustrare fronte e retro di Kid A nacquero come grandi tele manipolate con l’ausilio di coltelli, stucco e bastoncini, per poi essere rielaborate al computer. Tre i riferimenti emotivi citati dalla coppia di artisti: il surriscaldamento globale, la guerra nel Kosovo e il docu-drama a fumetti Brought to Light di Alan Moore, una scottante storia di crimini attribuiti alla Cia. I lavori di Donwood & Dr. Tchock sono raccolti nel libro Dead Children Playing (Naked Guides Ltd, 2007).

Led Zeppelin
IV (1971, Atlantic Records)
È il quarto dei nove album pubblicati dal gruppo britannico tra 1968 e 1982. Per l’interno copertina di quello che diventerà uno dei dischi di maggior successo della storia del rock, Barrington Colby disegna l’illustrazione, detta The Hermit o View in Half of Varying Light, di uomo anziano con lanterna in mano, sulla cima di una rupe. «Il vecchio sul fronte copertina che trasporta la legna è in perfetta armonia con la natura, infatti prende dalla stessa natura e restituisce alla terra. È un ciclo naturale… La sua abitazione fatiscente è stata abbattuta e lui è costretto a vivere in questi ghetti urbani. All’interno della confezione è raffigurato un eremita che regge la luce della verità e dell’illuminazione per un giovane ai piedi della collina. Coloro che conoscono le carte dei tarocchi, sanno che cosa significa l’eremita», commenta Jimmy Page, chitarrista della band. «La figura dell’Eremita è ispirata infatti alla carta dei Tarocchi: l’opera di Colby è una rivisitazione di una delle illustrazioni realizzate nel 1910 dall’artista inglese Pamela Colman Smith (1878-1951) per le carte Rider-Waite tarot deck.

Deep Purple
In Rock (1971, Harvest Records)
La perfetta sovrapposizione estetica tra l’accezione musicale e quella geologica della parola rock. La copertina del quarto disco del gruppo britannico è una provocatoria caricatura. L’opera originale si trova sul Monte Rushmore, nel massiccio delle Black Hills, nel Sud Dakota. A scolpire i blocchi granitici per immortalare i volti dei presidenti determinanti per le sorti degli Stati Uniti fu tra il 1927 e il 1941 l’artista Gutzon Borglum, con il supporto del collega di origine italiana Luigi Del Bianco. L’originale ritrae, da sinistra verso destra, George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt e Abraham Lincoln. Il lavoro, ordito dal manager della band, Tony Edwards, e firmato Nesbit, Phipps & Froome, sostituì quelle celebrità con Ritchie Blackmore, Ian Gillan, Jon Lord e Roger Glover. Dal momento che i presidenti erano quattroe i Deep Purple cinque, Ian Paice fu aggiunto nell’angolo in basso a destra. La tecnica adoperata fu quella del collage: i primi piani dei musicisti vennero ritagliati e incollati su una veduta di montagna e poi colorati a mano per l’effetto roccia.

It’s a Beautiful Day
It’s a Beautiful Day (1969, Columbia)
Luglio 1967. A San Francisco splende il sole, e per il violinista David LaFlamme il rebus sul nome da scegliere per un nuovo gruppo rock è risolto. È nata la band It’s a Beautiful Day, destinata a lavorare fino al 1974 a un progetto sonoro ed emotivo a zonzo tra rock progressivo, jazz, folk e visioni lisergiche. Per l’ellepì dall’illustratore George Hunter e colorata da Kent Hollister, ha un impatto forte, tanto che verrà inserita dal magazine Rolling Stone tra le migliori di sempre al numero 24. Il disco superò il mezzo milione di copie nei soli Stati Uniti, ma per le ristampe successive al 1972 l’etichetta Cbs dovette cambiarne la copertina. Il manager Matthew Kazt aveva infatti depositato l’immagine a nome della sua San Francisco Sound Records.

Depeche Mode
Construction Time again (1983, Mute Records)
Un fabbro è plasticamente al lavoro tra le rocce, di fronte al Cervino. Il lato di ripresa è quello svizzero, il più noto, con le pareti Est e Nord. Il fotografo Brian Griffin e il graphic designer Martyn Arkins confezionano una cover che rispecchia perfettamente la tendenza industrial inaugurata con il terzo album del gruppo britannico. Uno stile sperimentale nato in realtà nei Settanta attorno ai britannici Throbbing Gristle, dei quali presentiamo in questa stessa esposizione una cover con fotografia del Kailash, montagna sacra tibetana. Brian Griffin e Martyn Arkins sono nomi che si incontrano anche altrove in mostra: Atkins ha curato Kilimanjaro dei Teardrop Explodes; Griffin è autore della fotografia per Goodbye Cruel World di Elvis Costello and The Attractions.

Tinariwen
Tassili (2011, V2)
Il quinto disco del gruppo cui si attribuisce a ragione il ruolo di inventore del rock blues del deserto, deve il titolo alla catena montuosa che sorge nel sudest dell’Algeria e culmina nei 2.158 metri del monte Afao. La band simbolo del popolo Tuareg avrebbe voluto inciderlo a Tessalit, nel nordest Mali, dove i musicisti, impegnati nella lotta per l’autodeterminazione, sono cresciuti. Ma in quella zona imperversavano le milizie di Aqmi, il ramo sahariano di Al-Qaeda. L’album è nato quindi nel deserto algerino con il massiccio come sfondo. Alle incisioni hanno partecipato Kyp Malone e Tunde Adebimpe dei TV on the Radio, Nels Cline dei Wilco e The Dirty Dozen Brass Band di New Orleans. La catena del Tassili n’Ajjera comprende un Parco Nazionale e preziosi siti archeologici. Dal 1982 è Patrimonio mondiale dell’Unesco. Nell’estate 2008 i Tinariwen si sono esibiti al Monte dei Cappuccini di Torino nell’ambito della rassegna Voci Alte, curata dall’agenzia Musicalista su incarico del Museo nazionale della montagna.