Ponte Galeria è una località suburbana a nord ovest della Capitale, stretta tra il raccordo e la Roma-Fiumicino. Qui sorge l’omonimo Cie. Una gabbia a cielo aperto, circondata da una rete, un fossato, un muro di cinta e ancora sbarre di metallo per impedire agli “ospiti” di fuggire. Già dall’esterno è difficile avere dubbi sulla natura detentiva della struttura, entrandoci non si può che confutarlo: chiavistelli e sbarre, porte che si aprono solo con badge elettronici, polizia, esercito e carabinieri a garantire l’ordine pubblico.

Il Cie di Ponte Galeria ieri ospitava 80 migranti, 17 donne e 63 uomini, delle più disparate nazionalità, dalla Cina al Gambia, dalle Filippine alla Tunisia, allo Sri Lanka. La comunità più grande al momento sono 23 marocchini, quasi tutti giovanissimi, portati qua direttamente da Lampedusa. Sono proprio loro che stanno attuando la protesta più radicale degli ultimi mesi rifiutando il cibo e cucendosi la bocca. Una prima volta era successo il 21 dicembre 2013, qualche giorno di clamore mediatico tante promesse e poi nulla era cambiato. Così sono tornati a protestare il 26 gennaio scorso, ancora titoli sui giornali e poi il primo febbraio la scelta d’interrompere la protesta: «Vogliamo andare avanti tutti insieme nella protesta, ma alcuni di noi stanno male, chi con il cuore, chi con i reni. Ad un paio cominciavano ad infettarsi le labbra», spiegano.

Tahrik è uno di loro. Ha 24 anni, viene dal Marocco ed è arrivato a Lampedusa dalla Libia. Di mestiere fa il falegname e la sua unica parente stretta si trova a Firenze, dove vive e lavora da anni. Il suo viso parla per lui: gli occhi gonfi di stanchezza, le occhiaie profonde. Più che lo sciopero della fame è l’ansia per un futuro quanto mai incerto, sospeso in questo limbo che assomiglia di più ad un inferno, a stremarlo. Racconta che non dorme più di due o tre per notte, ma no, non vuole prendere sonniferi o psicofarmaci, vuole solo andare via, lui che non è mai entrato in una questura in vita sua. L’alluvione appena passata ha peggiorato ancora di più le condizioni di vita nel centro: le gabbie completamente allegate, perdite dai soffitti e impianti di riscaldamento rotti.

A tradurci le parole di Tahrik è Iassid, uno tra gli ospiti più anziani di Ponte Galeria. E’ tunisino e parla perfettamente in italiano, ha quasi 40 anni, più di metà dei quali trascorsi nel nostro paese. «Abbiamo scritto a Napolitano e al Papa, fatto appello a loro per darci una mano, per cambiare le cose ma non è successo nulla. Sentiamo la vicinanza delle associazioni e dei gruppi che vengono qua, di quelli contro i Cie, ma qualcuno che ha il potere deve intervenire, tanto dopo che sono venute le televisioni la situazione la conoscono tutti. Perché nessuno fa niente?». Era stato Letta stesso ha sottolineare la necessità di intervenire sui Cie e mettere mano alla Bossi-Fini, unico risultato una parziale modifica al reato di clandestinità. «Non lo dico tanto per me – prosegue Iassid – ma per chi ha attraversato il mare, rischiato di morire e visto altri come lui morire in acqua, non può essere rimandato indietro».

Per Marta Bonafoni, consigliera regionale del Lazio che nell’ultimo mese e mezzo è al terzo accesso a Ponte Galeria i Cie sono «irriformabili». Per questo ha presentato una mozione in consiglio regionale per chiederne la chiusura e nel frattempo la trasparenza e l’accessibilità: «E’ più difficile entrare in questi luoghi che in carcere, eppure non dovrebbero essere strutture detentive. Con la mozione che mi auguro sia calendarizzata già per la prossima settimana impegniamo la Regione Lazio a chiedere la chiusura di Ponte Galeria. Ogni cambio di politica in tema d’immigrazione non può che passare per l’archiviazione di queste strutture».