«Partono tutti incendiari e fieri. Ma quando arrivano sono tutti pompieri»:le parole di Rino Gaetano sembrano descrivere le politiche economiche dei gialloverdi dall’approvazione definitiva della finanziaria al caso Carige.

L’altro ieri sera il governo, dopo aver incontrato i nuovi reggenti della banca ligure con un Consiglio dei ministri durato una manciata di minuti, decide un intervento straordinario a sostegno di Carige. Le modalità con cui ciò avviene allarmano in sé, suggerendo che la situazione sia più seria del previsto oppure che il contesto del settore del credito sia talmente fragile da temere un qualsivoglia effetto contagio dalla crisi di quella che un tempo fu la quinta banca nazionale. Evidentemente neppure il ridimensionamento della mole di crediti deteriorati ottenuto in quest’ultimo anno è riuscito a consolidare il sistema come ci si attendeva se ora si teme un effetto domino. I motivi dell’intervento/sostegno non sembrano originali.

Nessuna peculiarità rispetto ai precedenti, se non che il fallimento di Carige si scaricherebbe principalmente su una città già colpita dal crollo del ponte Morandi. Certo è che il commissariamento stabilito dalla Bce il primo giorno lavorativo del 2019 ha determinato un’accelerazione della crisi della banca, aumentando una fuga di correntisti iniziata da tempo. Lo stato patrimoniale, dunque, si conferma al di sotto delle necessità, tanto più che in questi mesi lo spread si è stabilizzato a circa il doppio dello scorso anno, finendo per aumentare le perdite sui titoli pubblici di cui tutti gli istituti italiani sono pieni.

Ecco allora l’emergenza di intervenire, un’emergenza che potrebbe apparire sopravvalutata dall’inesperienza del nuovo governo, ma che va presa sul serio, non foss’altro per la tradizionale ostilità del M5S verso i salvataggi delle banche. Ma proprio di questo si tratta. Dopo le banche venete e Mps ora lo Stato italiano decide di intervenire su Carige, previa una espressa richiesta dell’istituto, con una «ricapitalizzazione precauzionale» che potrebbe attingere risorse dal tanto contestato provvedimento del governo Gentiloni, quello del fondo di 20 miliardi per intenderci. Insomma garanzie pubbliche con denaro pubblico per fronteggiare i problemi di Carige subito e per invogliare qualche acquirente dopo.

In Italia il «troppo grandi» si declina in un «abbastanza grandi per fallire» e così spuntano le risorse dello Stato per salvare l’ennesima banca, non tanto per tutelare i correntisti, ma soprattutto per non esporre i grandi istituti di credito ai rischi di una crisi del settore e a un loro possibile declassamento. Che Carige sia considerata abbastanza grande per fallire lo dimostra il fatto che il Fondo interbancario che ha finanziato l’ultimo bond emesso dalla banca ha aumentato il proprio rendimento passando in questi giorni dal 13 al 16%.

Un macigno sulla strada della ripresa di Carige. Ma la richiesta dei commissari di dimezzarne il costo è stata respinta dalle altre banche italiane. Una posizione che, più che descrivere il coraggio e lo stato di salute del sistema creditizio, mostra il far conto proprio sulla mano pubblica. Il soccorso pubblico, però, come nei casi precedenti, non si trasforma in controllo e regia di un settore strategico non solo per l’economia finanziaria, ma anche per quella reale. I denari pubblici salvano, soccorrono, ma non governano. Per Mps il capitale pubblico è servito per non fare precipitare la situazione, ma entro il 2021 dovrà rientrare e se non rientrerà non sarà certo perché lo Stato ha preso in mano la banca senese, ma solo perché non ci saranno ancora le condizioni perché la banca cammini da sola. Anche nel settore del credito la sfera pubblica serve a favorire quelli che Mariana Mazzucato definisce i soggetti che estraggono valore anziché produrlo. E i pompieri continuano a spegnere gli incendi, soprattutto finanziari.