E dopo il tonfo di Hercules del prode Renny Harlin, tocca a un altro specialista action del valore di Paul W. S. Anderson mordere la polvere dell’arena gladiatoria. Se lo Spartacus televisivo prodotto da Sam Raimi ha sfruttato il realismo di Rome della Hbo rileggendolo alla luce del digitale da comic book del 300 di Zack Snyder, concedendosi il lusso di overdose in materia di sex & violence, Pompei, pur lavorando nel solco della ricostruzione digitale che fa tanto History Channel, si vieta il piacere del cattivo gusto esibito per restare volutamente nel perimetro di uno spettacolo rassicurante e prevedibile.

Per cui Pompei si offre non come spettacolo della ricostruzione (o reinvenzione…) ma della contraffazione. Se già Spartacus è il secondo grado di Rome e 300, Pompei s’avvita inutilmente in un secondo grado al quadrato senza produrre nemmeno un brivido di vertigine da eccesso… eccessivo. Inseguendo soprattutto il target degli adolescenti, il film ripropone con inutile spregio del ridicolo il tema degli amanti dannati, che si ergono contro i pregiudizi di classe del proprio tempo ma nulla possono contro il fato. Anderson si rifà al modello Titanic, e sostituisce la gemma degli abissi con un imbarazzante calco dei due innamorati pietrificati dalla lava e avvinti in un bacio senza fine… per l’eternità. Anderson, a onore del vero, non è cineasta disprezzabile. Anzi. Di lui si ricordano con piacere Punto di non ritorno, bel esempio di sf horror, un buon remake come Death Race e persino nei suoi Resident Evil c’è del buono.

In Pompei, obbediente all’incarico produttivo, esegue il compito con puntiglio. E senza particolari guizzi. Il melodramma fra i due amanti con-dannati è solo enunciato e il conflitto politico fra Roma e Pompei, incarnato da un Kiefer Sutherland che si diverte a gigioneggiare e tiranneggiare un Jared Harris imbelle come da copione, è buttato via come l’ingombrante conferma che gli sceneggiatori hanno svolto i loro compiti.

Kit Harrington (proveniente da Il trono di spade), fedele all’estetica da contraffazione del film, sembra il sosia di Orlando Bloom, mentre tutto il prologo del film, non è altro che la riscrittura dell’incipit del Conan il barbaro miliusiano. Ovviamente non poteva mancare lo schiavo africano dal vocione possente e minaccioso. E Adewale Akinnuoye-Agbaje (il Mr. Eko di Lost, il Morel di Jimmy Bobo – Bullet to the Head), probabilmente la cosa migliore del film, a dire il vero non fa rimpiangere i vari Djimon Hounsou o Michael Clarke Duncan. Il problema è che, viziati dai fiotti di sangue al ralenti di Spartacus, i combattimenti anemici di Pompei risultano soporiferi. Paradossalmente, invece di favorire la sospensione dell’incredulità con uno spettacolo rassicurante, l’assenza di sangue risulta una furbata e un’ipocrisia imperdonabile. Motivo per cui, si perde immediatamente interesse nelle acrobazie gladiatorie, visto che i combattimenti assomigliano a delle prove di riscaldamento degli stuntmen. La frustrazione trova infine parziale sollievo nelle attese scene di distruzione di massa, realizzate con grande cura del dettaglio, anche se quelle di 2012 sono a tutt’oggi insuperabili. Se le meteore di fuoco che solcano il cielo richiamano alla memoria Armageddon, il momento dello Tsunami è risolto con un ottimo senso dello spazio.

I galeoni che sfrecciano per le strade del mercato sono un’ottima invenzione visiva mentre il protrarsi infinito del duello fra Corvo e il Celta, dove finalmente compare anche qualche stilla di sangue, è messo in scena con un senso del ritmo non banale. Come dire che dato il materiale a disposizione e poiché il finale è obbligato, ci voleva forse un approccio meno servile nei confronti delle regole dell’entertainment per fare di questo Pompei un percorso meno abusato e prevedibile fra le convenzioni del racconto popolare. Una presunta fedeltà alla storia o a un’idea di documentazione non deve tradursi necessariamente in un catalogo di luoghi comuni inerti nel quale il rispetto della norma è tale da ingessare qualsiasi possibilità del racconto che non sia quella di una rassicurante prevedibilità portatrice di una mediocrità di confezione che è soprattutto un’ideologia merceologica.