Non si sa cosa sia meglio: se lo stillicidio dei crolli nel sito di Pompei, quelle vaste aree che franano imbevute di acqua mal drenata, o i ripetuti furti di brani di affreschi. L’ultimo riguarda la dea Artemide, prelevata in tutta calma qualche giorno fa, da mani esperte. Era già accaduto, infatti, che dall’antica città sotto il Vesuvio sparisse un frammento di pittura parietale che poi, però, era stato rispedito via posta all’ufficio della soprintendenza. Mittente sconosciuto e mai rintracciato. Un gesto che aveva tutta l’aria di essere uno sfregio, una spavalda provocazione. D’altronde, sempre sull’onda della provocazione, verrebbe da preferire il furto allo sbriciolamento per incuria. Il primo, almeno, preserva qualcosa, magari in casa del malandrino di turno; l’altro, non “tiene” nulla per nessuno.

Davanti alla Domus di Nettuno, chiusa al pubblico e in zona sbarrata da decenni, non si può certo parlare di fruizione collettiva. Pompei è già da tempo inaccessibile al mondo: il suo essere percorribile a tratti e il suo essere divenuta, come l’ha tristemente definita il Guardian, un posto di “neglected ruins”, non fa della città romana un patrimonio trasmissibile, un archivio vivente di storia, ma un cimitero costellato di gadget e ricordini, royalties free, molti dei quali asportabili in adolescenziali zainetti.

Nonostante le cascate di soldi promessi e pure ottenuti – siamo di fronte a uno dei siti archeologici maggiormente bisognosi di manutenzione e attenzione, ma anche sontuosamente finanziati – Pompei è diventato il luogo simbolico della spoliazione della nostra cultura, del disarmo inarrestabile della nostra consapevolezza. Il suo disfacimento va di pari passo con l’epoca oscura che ci è toccato attraversare. E non c’è generale dell’esercito (tanto meno esterno, corpo alieno rispetto alle soprintendenze) che possa arginare la catastrofe etica in atto. L’indisciplina è prima di tutto nell’oblio. Nel passato e nella Storia c’è il germe per la costruzione del proprio sé. L’eterno presente tende a dissipare. E quando la memoria si calpesta, si accartocciano insieme immaginario, identità possibili e futuro auspicabile. E’ per questo che gli elicotteri schierati in cielo, a Pompei, si trasformano in oggetti privi di qualsiasi potenza metaforica.

Ma torniamo con i piedi per terra. In Italia, ci sono tutti i mezzi per allestire un vero sistema di videosorveglianza e abbiamo le persone con le competenze giuste – giovani, qualificate e spesso disoccupate – che potrebbero realizzare la rete mancante. Servono semplicemente assunzioni, buona coscienza professionale, una vitalità dimenticata e l’abbandono della pratica del malcostume. Difficile? Molto. A difettare forse è la volontà politica, il senso della politica, quell’instancabile affaccendarsi per un bene comune. Nel 2014, ancora non abbiamo capito che la memoria si custodisce quotidianamente e non in via emergenziale, con i commissariamenti. Il nostro passato è “ordinario”, Pompei era una città dove si svolgevano attività “ordinarie”, un organismo interconnesso che si fondava su un tessuto sociale normale. Non era un fortino per eletti né una lussuosa reggia.

Adesso il sito negletto si vendica e lancia la sua maledizione su ogni ministro dei beni culturali fresco di nomina. E’ il suo temibile banco di prova di fronte all’opinione pubblica. Franceschini non aspetti il George Clooney della situazione. I Monuments Men hanno più chance sullo schermo: gli “alleati” che salvarono il nostro patrimonio trafugato, sono gli stessi che l’avevano bombardato.