Giuseppe Gherpelli insegna Gestione dei beni e delle attività culturali nei corsi di specializzazione post laurea dell’Università di Firenze e nei master dell’Università del Piemonte Orientale. È stato vicepresidente del consiglio nazionale dei beni culturali e ambientali e dirigente del settore beni artistici, architettonici, musei e proposta culturale del comune di Firenze.

Attualmente è direttore generale della fondazione I Teatri di Reggio Emilia e presidente dell’Atit, l’associazione che riunisce i ventuno teatri di tradizione italiani. Dal 1998 al 2001, su indicazione dell’allora ministro Walter Veltroni, è stato direttore amministrativo della soprintendenza archeologica di Pompei: insieme al soprintendente Pietro Guzzo, provò a organizzare e gestire gli scavi resi per la prima volta autonomi dal punto di vista finanziario.

L’idea di rendere autonoma una delle aree archeologiche più famose al mondo (la terza meta turistica italiana del 2013, dopo il Colosseo e i Musei Vaticani) ciclicamente ritorna, declinata in modi differenti: dai tentativi di creare una fondazione con i privati e i commissariamenti dell’epoca Bondi fino alla legge Valore cultura su iniziativa di Massimo Bray. Se il prossimo governo Renzi dovrà decidere cosa fare della riforma del ministero avviata da Bray, le antiche domus sono già sotto l’ombrello del Grande progetto Pompei con un direttore generale, che ha una sua struttura e un suo vice, a cui è affidata la gestione dei bandi (105 milioni di euro da spendere entro il 2015) per il restauro e la valorizzazione del sito. La soprintendenza, staccata da Napoli, è stata affidata a un professore universitario esterno al ministero, una nomina particolarmente contestata su cui pendono ricorsi.

Professor Gherpelli, che differenza c’è tra il modello gestionale ideato per Pompei dal ministero retto da Bray e quello a cui lavorò lei?

Dalla fine degli anni Novanta a oggi, lungo un percorso fatto anche di incidenti, ritorna la medesima vocazione, che si basa su un errore di fondo: lo stato non si ritiene in grado di gestire se stesso così esce da sé per cercare soluzioni al di fuori. Naturalmente è possibile chiamare un esterno per risolvere dei nodi legati all’amministrazione, con un respiro lungo che consenta di pianificare per il futuro. Ma idee e risorse devono tenere conto degli uomini che ci sono già nelle strutture. Rispettando le competenze scientifiche.

È impensabile che non ci sia un soprintendente all’interno del ministero che sia in grado di gestire gli scavi. Se si ritiene di non avere delle professionalità adeguate allora bisogna costruire dei percorsi ma non si può abdicare al proprio ruolo, debilitando di fatto il ministero, istituzione a cui è affidata la tutela dei beni collettivi.

Il lavoro fatto da me e da Pietro Guzzo dimostra che le figure di direttore amministrativo e soprintendente possono convivere, senza limitare l’autonomia l’uno dell’altro. Il legislatore invece pare abbia affidato all’Unità Grande Pompei la responsabilità di progettare il futuro delle aree archeologiche e dei territori nei quali esse sono inserite, elaborando un piano strategico nel quale le competenze della soprintendenza sono sfumate o relegate in un ruolo troppo marginale.

Altra riforma di cui periodicamente si parla, ed era anche nella proposta Bray, riguarda la possibilità di staccare i maggiori musei dai poli in cui sono inseriti. La sua gestione si basava anche sull’autonomia finanziaria degli scavi, che trattenevano in loco gli incassi e i proventi da royalties. Non si rischia così di penalizzare i musei che non possono fare grandi numeri e le piccole aree archeologiche diffuse sul territorio?

Non sono d’accordo con questa impostazione. I grandi musei coprono da soli circa il 30/40% delle spese e hanno comunque bisogno dei finanziamenti pubblici. L’autonomia finanziaria ideata da Veltroni lasciava a carico dello stato il personale. Io avrei preferito affidare anche il personale alla struttura autonoma di Pompei e lavorare a ottimizzare incassi, finanziamenti e fabbisogno.

Alle piccole realtà archeologiche deve pensare lo stato, non un sito come Pompei. Gli scavi archeologici, così come i grandi musei, devono però rimanere all’interno della soprintendenza, che organizza il lavoro tenendo conto del contesto. L’autonomia finanziaria non deve significare tagliare i rapporti con il territorio.

La manutenzione e il restauro del nostro patrimonio sempre più spesso viene affidata ad appalti esterni. I giovani architetti arrivati con il Grande progetto Pompei nel 2015 andranno via. Non si rischia di sprecare risorse senza salvaguardare il patrimonio?

Si va verso l’esternalizzazione di competenze che dovrebbero essere in capo allo stato, anche su input delle stesse imprese. Lo stato non deve avere al suo interno competenze iperspecialistiche, quelle le può acquisire dall’esterno quando servono, ma la manutenzione e la tutela devono essere fatte con personale interno. I costi così sono anche inferiori. Se si legge il report del Louvre del 2012 si comprende che in Francia non hanno rinunciato ad avere in mano il controllo dei propri beni. Certo bisogna gestire con responsabilità, puntando ad avere competenze reali, e non favorendo percorsi opachi.

Come valuta l’ipotesi della riforma Bray di riunire in una super direzione arte e architettura contemporanee con lo spettacolo e i beni immateriali?

Ero convinto dall’inizio che la riforma non sarebbe arrivata in porto. Ci vuole un’analisi corretta del settore per giungere a un piano. Le separazioni delle direzioni non sono riducibili a competenze univoche. Risparmi si posso sicuramente fare ma per ridurre le direzioni ci vuole una strategia convincente che si basi su una solida analisi. Attenzione poi a indebolire troppo il Mibac, che è già sottorganico da molto tempo: paesi come la Francia e la Germania hanno investito molto più dell’Italia che per responsabilità della politica ha impegnato cifre ridicole nel suo patrimonio, patrimonio che rappresenta la nostra identità in fieri.

Per il futuro credo che ci sia bisogno di una riforma del ministero e del settore dello spettacolo, oggi in grande sofferenza, che tenga conto delle competenze interne per gestire risorse, patrimonio e personale. Non c’è alternativa agli investimenti sul personale qualificato all’interno di strutture pubbliche.