«Non si può continuare a vivere per anni sul ciglio del burrone dei licenziamenti». Così scriveva Maria Baratto, operaia del gruppo Fiat, da quattro anni in cassa integrazione. Due anni dopo, il 20 maggio del 2014, colpendosi con quattro coltellate nel ventre renderà presaghe quelle parole e insieme l’anima sua.

Cinque operai dello stabilimento di Pomigliano d’Arco, qualche giorno dopo quel suicidio – il terzo in quel polo industriale – appendono un fantoccio di pezza e gommapiuma a un palo davanti ai cancelli della fabbrica, gli passano una corda intorno al collo e attaccano sul volto una fotografia dell’allora amministratore delegato, Sergio Marchionne. La Fiat contesta la manifestazione come lesiva della propria immagine, e dispone il licenziamento dei cinque.

Di qui, l’iter legale dei diversi procedimenti si articola in tre successivi capovolgimenti. La prima sentenza, del Tribunale del Lavoro di Nola, rigetta il ricorso degli operai: i cinque, rendendosi responsabili di «un’intollerabile incitamento alla violenza» e di «una palese violazione dei più elementari doveri discendenti dal rapporto di lavoro», avrebbero procurato «gravissimo nocumento morale all’azienda e al suo vertice societario».

Nel settembre del 2016 la Corte d’Appello di Napoli, nel pronunciarsi, approfondisce e illustra il cuore della controversia: i lavoratori hanno esercitato il proprio diritto di critica legittimamente – e quindi non solo nel rispetto della legge ma anche in modo da non esorbitare nella rappresentazione la continenza sostanziale e formale – oppure illegittimamente? E, di conseguenza, la reazione aziendale è stata proporzionata? Il giudizio d’appello risponde che quei limiti di continenza nel diritto di svolgere critiche dell’operato altrui, da garantirsi in una società democratica, non sono stati travalicati da quell’azione teatrale, pure «macabra e sarcastica».

Ridimensionata nel perimetro delle condotte legittime, la protesta inscenata non può sostenere quindi nessuna ipotesi di violazione degli obblighi alla base del rapporto di lavoro: né lo svolgimento dell’attività aziendale, né il vincolo di fiducia tra lavoratori e imprenditore sono stati lesi. Rovesciando quindi la prima sentenza, la Corte d’Appello ordina alla Fiat il reintegro degli operai nel posto di lavoro. L’azienda incomincia a versare il salario ai cinque, ma non ne consente il ritorno in fabbrica e ricorre in Cassazione.

E dunque, sulla rappresentazione scenica dei cinque di Pomigliano anche la Corte Suprema è chiamata a pronunciarsi. Il giudizio che ne dà è quello di un’azione teatrale che, attribuendo tratti riprovevoli e disonorevoli all’amministratore delegato ed esponendolo al pubblico dileggio, oltrepassa la misura dell’esercizio del diritto di critica per «travalicare il limite della tutela della persona umana» e del «rispetto della democratica convivenza civile». Gli operai
sarebbero venuti meno all’«obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato» (art. 2105 del Codice civile), la loro manifestazione avrebbe leso irreparabilmente quella fiducia che è alla base del rapporto di lavoro e l’azienda avrebbe diritto, quindi, a licenziarli per giusta causa. Mimmo Mignano, Antonio Montella, Massimo Napolitano, Marco Cusano e Roberto Fabbricatore perdono così il lavoro.

Da una parte, l’allestimento teatrale del finto suicidio di Marchionne: azione scenica di critica radicale delle relazioni industriali, presa di posizione di fronte alle sfibranti condizioni quotidiane di esistenza, parola posta davanti al dolore. Dall’altro, tre diversi gradi di giudizio che sono chiamati a pronunciarsi sulla continenza decorosa di una rappresentazione, esprimono sentenze di gusto, discutono di motivazioni in base a criteri tratti dalla teoria estetica o dal genere letterario della satira.

Da una parte, tre operai che si tolgono la vita e altri che tentano di farlo, una cassa integrazione lunga anni, numerosi licenziamenti e la prospettiva di una definitiva chiusura del sito industriale. Dall’altra, una politica aziendale che esige mano libera per poter disporre di un mercato del lavoro la cui flessibilità deve estendersi fino alla cancellazione di interi settori di lavoro salariato.

Qui non è rilevante un atteggiamento di adesione o meno nei confronti delle lotte operaie: è in gioco, piuttosto, una concezione del diritto. Quella che ha indotto una Corte a giudicare di un soggetto immateriale come una rappresentazione scenica e a sentenziare in via definitiva contro cinque individui, che sono materia, carne, ossa, relazioni. Se la vita degli uomini si manifesta attraverso la corporeità e se quei corpi che siamo preesistono al diritto, come può un tribunale essere chiamato a giudicare delle conseguenze dell’esibizione di un manichino di pezza e in nome dello spettacolo indecoroso che questo offrirebbe confermare il licenziamento a cinque persone e quindi rendergli ancora più impervia l’esistenza? Gli operai di Pomigliano hanno perso il lavoro perché il loro diritto di «svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» è stato da una sentenza giudicato secondo al diritto di un pezzo di gommapiuma, di qualche metro di corda e di una immagine fotografica di non essere esposti.