Il 2015 verrà ricordato nella Storia come un anno di guerre, che assieme alle migliaia di vittime umane, hanno abbattuto nobili sentinelle del tempo, totem di memorie universali. Neppure il colossale Leone di Allat posto a guardia del museo di Palmira o i poderosi lamassu (tori alati dal volto umano) della porta di Nergal a Ninive, hanno potuto opporsi alla vigliacca forza di armi primitive e «intelligenti».

Il 22 dicembre, il teatro romano dell’antica città di Bosra – iscritta alla lista del World Heritage dal 1980 – è stato gravemente danneggiato da due barili di Tnt lanciati dall’aviazione siriana nel tentativo di centrare un gruppo di ribelli. La notizia è passata in sordina, anche dopo il comunicato Unesco con il quale la direttrice generale Irina Bokova condannava fermamente le distruzioni, precisando che «la protezione dei siti culturali è inseparabile dalla protezione delle vite umane, al fine di permettere alla Siria di ritrovare il cammino della pace».

Le foto diffuse dal Department of Antiquities of Bosra Al-Sham mostrano chiaramente il rovinoso crollo di strutture murarie e colonne nel cortile occidentale pertinente al teatro, uno dei gioielli del patrimonio archeologico della Siria. Il monumento si data al II secolo d.C., quando Bosra passò da capitale settentrionale del regno nabateo a residenza del nuovo governatore d’Arabia col nome di Néa Traianè Bostra. Lo straordinario stato di conservazione dell’edificio si deve alla sua trasformazione in cittadella islamica.

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Leone di Allat

La Sposa del deserto

All’inizio del XIII secolo, sotto la dinastia degli Ayyubidi, esso venne infatti circondato da possenti bastioni e la cavea – che poteva accogliere fino a novemila spettatori – fu progressivamente interrata. Dopo i restauri eseguiti tra il 1947 e il 1970, il teatro si distingue oggi per l’imponente architettura, di cui persiste uno dei tre piani colonnati che impreziosivano in origine il muro di scena. D’altra parte l’Apsa (Association for the Protection of Syrian Archaeology) aveva denunciato fin dal giugno 2011 i bombardamenti delle forze governative sulla cittadella, evidenziando i danni inferti al Palazzo di Traiano, alle antiche moschee di Al-Omari e Fatima e alla chiesa di San Giorgio.

Nel marzo dello stesso anno, agli inizi della guerra civile, fu proprio il teatro di Bosra a fare da sfondo al «trionfo» dei miliziani dell’Esercito Siriano Libero, i quali – dopo aver conquistato la città – sfilarono tra le gradinate sparando in aria con i loro kalashnikov. Immagini che suscitarono stupore e paura per l’occupazione di un monumento antico da parte di uomini armati ma che non lasciavano presagire l’orrore delle esecuzioni che l’Isis metterà successivamente in atto in un altro teatro romano, quello dell’ormai scomparsa Città carovaniera.

Si direbbe dunque che gli attacchi al patrimonio, al di fuori dei video o dei «raffinati» reportage fotografici diffusi dallo Stato Islamico, non provochino clamore. Ugualmente lontanissima appare l’ondata di rabbia che travolse il web quando, nel maggio scorso, la bandiera del Califfato sventolò sulla cittadella di Palmira, innescando la serie di esplosioni che – tra agosto e ottobre – ha polverizzato i principali edifici della cosiddetta Sposa del deserto. Di uno dei siti più visitati al mondo, non restano oggi che macerie e pochi monumenti si elevano a ricordarne lo splendore che incantò viaggiatori di ogni epoca.

Aborriti dal «purismo» di al-Baghdadi perché ricettacoli di idoli preislamici, sono caduti sotto i colpi della dinamite i templi di Baalshamin e di Bêl (già scalfito dalle granate del regime nel 2012), entrambi risalenti al I secolo d.C. Demolite anche le tombe funerarie a torre appartenute ad Atenatan, Giamblico, Elahbel e Kitot, con le spoglie delle centinaia di defunti che, da millenni, le abitavano.

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L’attacco a Palmira

Ecatombe di «idoli»

Nella spavalda sfida all’Occidente che ha lanciato hashtag e proclami senza tuttavia intraprendere azioni concrete per difendere un bene dell’umanità – Palmira è sito Unesco dal 1980 e dichiarato a rischio dal 2013 – i jihadisti hanno osato abbattere da ultimo il grandioso arco di trionfo innalzato nel III secolo d.C., cornice della maestosa strada colonnata che ancora resiste, in un paesaggio ferito, tra cielo e sabbia del deserto. «Il nostro Profeta ci ha ordinato di distruggere gli idoli (…) Quando Dio ci ordina di rimuoverli e distruggerli, per noi diventa semplice e non ci interessa che il loro valore sia di milioni di dollari» dice uno dei miliziani protagonisti del video che in febbraio diede inizio alla propaganda iconoclasta di Daesh. E se a dieci mesi di distanza l’eco di mazze e martelli pneumatici con cui gli uomini del Califfo hanno perpetrato un’ecatombe di statue nel museo di Mosul, è ancora lugubre, il riferimento all’inutile valore dei manufatti antichi suona come una beffa. Allo stato attuale, infatti, il traffico illegale di reperti è considerato uno dei maggiori introiti dello Stato Islamico, che – attraverso una vasta rete di tombaroli – depreda i siti di Iraq e Siria, favorendo – con la complicità della Turchia – il contrabbando di oggetti nei mercati dei paesi «civilizzati». Non è escluso che le distruzioni di monumenti e necropoli, servano – oltre che a reclutare adepti al jihad – a cancellare le tracce di precedenti razzie.

In futuro sarà forse possibile appurare se i bassorilievi di Nimrud – capitale dell’impero assiro sotto Assurbanipal II (883-859 a.C.) rasa al suolo in aprile con i bulldozer – o le decorazioni della cella del tempio di Bêl a Palmira siano stati preventivamente rimossi e divisi in frammenti per poi esser venduti. Anche i resti della fortezza di Sargon II di Assiria a Dur-Sharrukin (odierna Khorsabad), il santuario dedicato al Dio del Sole Shamash e il Tempio della Triade – Maran, Martan e Bar Marayan – nella partica Hatra, erano stati spazzati via in marzo dalla lucidissima furia di Daesh.

Un lungo elenco di perdite incommensurabili per la storia dell’umanità, al quale si aggiunge la progressiva scomparsa dell’antico regno della regina di Saba a causa dei raid sauditi nello Yemen: Marib, Baraqish, Sirwah e altri numerosi siti sono stati seriamente compromessi mentre il museo regionale di Dhamar con i suoi 12000 reperti non esiste più. Persino la vecchia Sana’a, che il poetico sguardo di Pasolini aveva immortalato in un documentario del 1971 destinato all’Unesco, si sta sgretolando come un sogno di paglia e terra.

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Sabratha a rischio

Dopo quarantacinque anni, gli appelli restano inascoltati e le risoluzioni internazionali sulla protezione del patrimonio continuano a latitare. I caschi blu della cultura promessi dal ministro della cultura Dario Franceschini sono un miraggio in un’apocalisse di pietre e le bandiere italiane a mezz’asta per il lutto a Khaled Asaad – l’ex direttore ottantaduenne del sito di Palmira decapitato in agosto dall’Isis – somigliano ai finti fiori di un cordoglio patinato. L’11 dicembre l’Isis ha raggiunto Sabratha, città fenicia della Libia, che l’imperatore Settimio Severo – nato nella vicina Leptis Magna – dotò di un superbo teatro in riva al mare.

Benché – di fatto – il sito archeologico non risulti «in ostaggio» l’anno appena trascorso insegna che non saranno gli scongiuri a salvare questo scorcio di orizzonte dagli irriducibili distruttori di memorie.