«E’ mio dovere avvisarvi di non andare in un sito archeologico aspettandovi di trovare ogni giorno (o se è per questo nel corso dell’intera stagione) scheletri, oro, gioielli, tesori sepolti, tombe né simili manufatti esotici», scrive Eric H. Cline nel breve saggio dal titolo Negli scavi L’archeologia raccontata da chi la fa (Bollati Boringhieri, traduzione di Stefano Suigo, pp. 124, e 16,00). Esortazione, quella dell’autore di 1177 a.C., Armageddon e Tre pietre fanno un muro – tutti editi in Italia da Bollati Boringhieri –, che potrebbe stupire un pubblico avvezzo al racconto di un’archeologia spettacolare. Dall’Egitto a Pompei passando per la Grecia, sono infatti le scoperte sensazionali (o presunte tali) a balzare agli onori della cronaca veicolando ancor oggi un’immagine dell’archeologo quale cacciatore di tesori: affreschi dai colori vividi, sontuosi mosaici e reperti di raffinata fattura campeggiano in tv e sui giornali, a discapito delle ceramiche, degli strumenti in pietra e di altri modesti manufatti che si recuperano invece abitualmente – ricorda Cline – scavando nell’area del Mediterraneo.
Quanto agli scheletri, se negli scavi non sono la regola, sui media non ne manca mai uno. La star dell’ultimo scorcio del 2021, ad esempio, è il cosiddetto ultimo fuggiasco di Ercolano, un uomo di circa 40-45 anni travolto dal flusso piroclastico del 79 d.C. e rinvenuto in posizione supina nei pressi dell’antica spiaggia della città vesuviana, con una piccola borsa contenente i suoi averi. Tuttavia, Cline – docente nel Dipartimento di Lingue e civiltà classiche del Vicino Oriente e direttore del Capitol Archaeological Institute presso la George Washington University, non si rivolge direttamente agli appassionati di archeologia quanto a chi vuole avvicinarsi a essa per farne il proprio mestiere. Il libro sfata un certo numero di cliché con l’obiettivo di preparare alla «vera archeologia», non romantica – afferma l’autore –, come quella descritta da Hollywood, ma caratterizzata da «polvere e sporcizia, a volte sangue (e vesciche), sempre sudore e ogni tanto qualche lacrima».
Oltre alla durezza del lavoro sul campo che Cline descrive con un pizzico di (auto)ironia, egli illustra i più recenti progressi scientifici e tecnologici di una disciplina in continuo rinnovamento. Coloro che si sono già cimentati nella lettura di Tre pietre fanno un muro, introduzione all’archeologia ispirata a Civiltà sepolte di C.W. Ceram (Einaudi, prima edizione 1952), osserveranno che Negli scavi sviluppa gli intermezzi intitolati «Scaviamo più a fondo», presenti nel precedente saggio. Si tratta, insomma, di una serie di domande che vengono poste di frequente agli archeologi dai profani e alle quali Cline risponde in modo specialistico, sulla base delle esperienze di scavo maturate in Israele, Egitto, Giordania, Cipro, Grecia, Creta e negli Stati Uniti, mantenendo nondimeno un tono e un linguaggio amichevoli. I cinque capitoli offrono una sintetica panoramica delle tecniche di indagine impiegate in archeologia – dalle ricognizioni di superficie al telerilevamento per individuare i siti da scavare, dai differenti approcci stratigrafici e di datazione ai primi interventi sugli oggetti ritrovati, dal trattamento dei resti umani all’utilizzo del Dna per lo studio delle patologie del passato.
Nell’ultimo capitolo, l’autore affronta la piaga degli scavi clandestini e del traffico illecito di reperti, acuitasi in seguito alla distruzione e al saccheggio di numerosi siti archeologici nelle zone di guerra del Medio Oriente. In chiusura, Cline lancia dunque un monito spesso negletto seppur in apparenza scontato: «Archeologia non vuol dire soltanto trovare i resti lasciati da civiltà passate. Vuol dire anche preservare e curare quelle vestigia antiche per le generazioni future».
Nella stessa direzione va anche Jean-Paul Demoule con I tesori dell’archeologia Piccole e grandi scoperte (Leg Edizioni, traduzione di Irène Bouslama e Lucia Visonà, illustrazioni di Marine Joumard, pp. 164, e 18,00). Demoule ha fondato, in Francia, l’Istituto nazionale per la ricerca archeologica preventiva (Inrap) e da sempre si impegna contro la pseudo-archeologia. Da specialista del Neolitico, si è occupato dell’«affare Glozel», controversia scientifica e giudiziaria relativa alla scoperta, nel 1924, di un insieme di oggetti ambiguamente attribuiti all’età del Ferro nel villaggio di Glozel, a una trentina di chilometri da Vichy. Il volume nasce da una rubrica che lo studioso ha tenuto per quattro anni sulla rivista divulgativa «Archéologia». I trentaquattro capitoli che lo compongono svelano «attraverso un caleidoscopio di scoperte» il punto di vista dell’autore sull’archeologia di oggi, i suoi metodi, i suoi risultati, le domande che pone e anche i dubbi che solleva. Demoule parte da Tesori!, l’esclamazione magica che, insieme alla parola mistero, accompagna in genere sulla stampa internazionale la descrizione degli scavi archeologici e delle scoperte portate alla luce. Un clamore che per l’autore riflette il crescente successo di pubblico, nondimeno ostacolato dalle politiche economiche dei governi, dell’archeologia.
Sebbene la copertina dell’edizione italiana presenti uno dei Bronzi di Riace (nel 2022 si celebreranno i cinquant’anni della scoperta delle colossali statue greche nei fondali del Mar Ionio), lo scopo del libro è mostrare che l’archeologia non è fatta solo dei capolavori dell’arte antica ostentati nei musei tradizionali ma anche di scoperte umili, come le foglie di cannabis rinvenute in una tomba cinese, o impercettibili, come le tracce di Dna o i granuli di polline. L’autore insiste, infatti, sull’importanza delle testimonianze materiali, a partire da quelle lasciate tre milioni e mezzo di anni fa dalle più antiche forme umane per finire con le moderne discariche. Testimonianze che aiutano a capire le società, antiche e non, perché l’archeologia – sottolinea Demoule – è anche una questione sociale e politica, che contribuisce a plasmare l’identità di una nazione. E mai come in quest’epoca è utile per smascherare mistificazioni e riscritture ideologiche della Storia. Tra i temi più rilevanti toccati dall’autore si segnalano l’archeologia degli invisibili, nel cui ambito si colloca la storia degli schiavi malgasci naufragati nel 1761 e abbandonati sull’isola deserta di Tromelin, in mezzo all’Oceano Indiano, o l’archeologia della schiavitù, che nelle Antille si occupa ad esempio sia dei cimiteri di schiavi (e quindi delle loro condizioni di salute) sia delle casès-negres, abitazioni che sorgevano ai bordi delle piantagioni coloniali.
Anche Demoule, come Cline, è sensibile alla problematica dei saccheggi dei siti archeologici nonché a quella delle acquisizioni illegali di oggetti antichi da parte dei musei europei e americani. Una sezione del libro è dedicata alla restituzione dei «tesori», argomento anche questo di grande attualità, sia a proposito dell’annosa diatriba tra il governo greco e il British Museum per il ritorno ad Atene dei marmi del Partenone, risvegliata da una raccomandazione Unesco del 29 settembre scorso e dalla successiva visita del primo ministro ellenico in Gran Bretagna, che per il recente voto del parlamento francese riguardante un bottino di guerra importato dal regno di Dahomey (l’attuale Benin). Nel mese di novembre, infatti, ventisei opere – statue antropomorfe in legno, troni e altari – hanno lasciato il Musée du quai Branly- Jacques Chirac di Parigi per tornare in patria, dove aspettano di essere esposte nel futuro Museo dell’epopea delle amazzoni e dei re di Dahomey ad Abomey, luogo in cui furono trafugate dalle truppe del colonello Dodds alla fine del diciannovesimo secolo.