Il piano di rilancio europeo di 750 miliardi, che con grandi difficoltà è stato messo a punto il 21 luglio scorso, non è ancora stato approvato definitivamente. E nuovi ostacoli si stanno interponendo in questi giorni. «Il tempo stringe» dice la presidenza tedesca del Consiglio europeo, per rispettare la tabella di marcia e far partire l’ambizioso progetto il primo gennaio 2021.
Il blocco viene da Ungheria e Polonia. Ieri la Commissione ha preso le difese della commissaria allo stato di diritto, la ceca Vera Jourova e confermato che «gode della piena fiducia» della presidente Ursula von der Leyen: la vigilia, il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, ne aveva chiesto le dimissioni. Jourova ha accusato l’Ungheria di essere una «democrazia malata»: «Orbán ama dire che costruisce una democrazia illiberale; io direi che costruisce una democrazia malata». Il braccio di ferro è sulle «condizionalità» che la Commissione e l’Europarlamento intendono porre per beneficiare del Recovery Fund. Venerdì scorso, in occasione di una riunione degli ambasciatori dei 27 alla Ue, i rappresentanti di Ungheria e Polonia hanno rifiutato l’approvazione della decisione che doveva dare formalmente in via al processo di ratifiche del Recovery Fund da parte dei 27 paesi (in una ventina deve passare attraverso un voto dei rispettivi parlamenti nazionali). La situazione per il momento è bloccata e rischiano di mancare i tempi per sbloccare i soldi.

Budapest e Varsavia rifiutano le condizionalità. Oggi dovrebbe venire pubblicato un atteso rapporto sul rispetto dello stato di diritto nei 27. L’Ungheria e la Polonia sono sotto la procedura dell’articolo 7 per violazione dei valori fondamentali. I «frugali», che già avevano accettato obtorto collo il Recovery Fund, si sono infilati nella breccia: Olanda, Danimarca, Austria e Svezia, a cui si è aggiunta la Finlandia, sostengono che il Recovery Fund non passerà nei rispettivi parlamenti se non c’è la clausola di condizionalità del rispetto dello stato di diritto.
L’Europarlamento fa pressione e non si accontenta del vago riferimento di Ursula von der Leyen nel discorso sullo stato dell’Unione del 16 settembre, dove la presidente aveva posto come condizioni solo l’assenza di «frode, corruzione e conflitti di interesse». Secondo Dacian Ciolos, capogruppo di Renew, seguito da S&D, dal Ppe, dai Verdi, «per una buona gestione dei soldi pubblici ci vuole una giustizia che funzioni, un’amministrazione non corrotta e quindi il rispetto dei valori della Ue al di là della semplice buona gestione dei fondi». Philippe Lamberts, dei Verdi, mette in guardia: «Si può abbattere la democrazia senza rubare soldi». Inoltre, resta ancora da approvare il bilancio Ue per il periodo 2021-2027, 1100 miliardi, e anche in questo caso rientra in gioco la questione dello stato di diritto.

Tra gli ambasciatori c’è la speranza che si tratti di un bluff di Ungheria e Polonia, che hanno bisogno dei soldi del Recovery (23 miliardi promessi a Varsavia some sovvenzioni). Ma i due paesi refrattari si stanno organizzando. Hanno annunciato lunedì l’intenzione di creare un Istituto comune, incaricato di dimostrare che Polonia e Ungheria sono vittime di «due pesi due misure» sulla valutazione del rispetto dello stato di diritto. L’Istituto avrà il compito di «lottare contro la repressione dell’ideologia liberale», accumulando conoscenze giuridiche per combattere le procedure avviate da Commissione e Europarlamento sulla base dell’articolo 7. Ungheria e Polonia rivendicano il diritto di portare avanti «posizioni nazionaliste», a cominciare dalla questione dei rifugiati, sulla base di «fondamenti cristiani», «spesso sgradevoli per le correnti liberali internazionali».