L’essere immersi nel flusso costante di relazioni del vivente che chiamiamo natura ci invita a una diversa attenzione al paesaggio animale e alle società dei vegetali. E specialmente all’interdipendenza delle relazioni che con essi intratteniamo.
Da sempre attento ai temi che indagano quelle con le piante – come le usiamo e come ci usano – è il percorso del giornalista Michael Pollan, autore di libri di successo, da Il dilemma dell’onnivoro, sul rapporto tra cibi e salute, a La botanica del desiderio, dove incrocia letteratura, botanica, storia sociale, e la poco convenzionale prospettiva del punto di vista delle piante, indagando come le specie domesticate hanno impiegato gli ultimi diecimila anni a escogitare modi per nutrirci, guarirci, vestirci… impressionarci. Com’è certo il caso di quelle considerate nel suo ultimo volume, Piante che cambiano la mente (Adelphi, «La collana dei casi», pp. 293, € 20,00).
Sostanze psicoattive impiegate per usi rituali e cerimoniali o per stimolare il nostro metabolismo. Come la caffeina – contenuta nel caffè e nel tè – che, assieme alla morfina, derivata dal papavero da oppio (Papaver somniferum), e alla mescalina (ricavata dal cactus Lophophora williamsii, noto come peyote e da quello detto di San Pedro), vengono raccontate allineando dati puntuali, ricerche, interviste a testimoni ed esperti, esperimenti, anche su di sé, e verifiche dirette nel proprio giardino.
Il resoconto delle sperimentazioni giardiniere, estetiche e farmacologiche effettuate sui papaveri da Pollan nel contesto della guerra alla droga del 1996-’97 viene così riproposto in una versione integrale, allora autocensurata. Dalla semina allo sfrontato fiorire, alla descrizione funzionale della serica friabilità dei petali di quei fiori così spesso soggetto prediletto da tanti pittori, all’incisione delle capsule incoronate da cui trarre l’amara linfa lattiginosa. Tra riletture delle Confessioni di un mangiatore d’oppio di Thomas de Quincey e le descrizioni dei sogni di Coleridge sotto il suo effetto, si evidenzia il paradosso per cui acquistare semi e coltivare papaveri, non di per sé illegale, lo diventa quando il coltivatore sa come ricavarne l’oppio.
Alla narrazione de Le porte della percezione di Aldous Huxley si richiama poi l’esperienza di partecipazione a una cerimonia dove si condivide mescalina tratta dal peyote. Pianta condannata già nel 1620 dall’inquisizione messicana, apprezzata invece da Antonin Artaud per cui aveva il «potere di re-incantare un mondo che gli dei avevano lasciato» e adoperata da almeno seimila anni dalle popolazioni dell’America del nord.
Nel caso della caffeina, ricavata invece perlopiù a partire dalle piante di Coffea e, per il tè, di Camellia sinensis, che nel corso della loro evoluzione hanno imparato a produrla per dissuadere gli animali dal mangiarle o per amplificare la memoria degli impollinatori, l’esperimento di Pollan è di smettere di assumerla. Rinunciando all’incremento indotto, anche nell’uomo, della capacità di attenzione, concentrazione, memoria: un’alterazione di stato che, in una forma di dipendenza del 90% degli umani, sembra però normale, proprio perché così diffusa e condivisa.
E ciò, anche se in realtà la caffeina non ci dà nuova energia e non fa che nascondere o procrastinare l’assalto della stanchezza. Magari fino al prossimo caffè. Quella tazza di «sole concentrato», come lo definiva il naturalista Alexander von Humboldt.
L’incontro tutto sommato recente delle piante che la producono con l’Occidente data intorno alla prima metà del Seicento, quando le prime botteghe di caffè si diffondono a Venezia, poi in Inghilterra.
Per quanto Alexander Pope renda omaggio al potere dell’infuso «che lo statista rende saggio», oltre a somministrare bevande, i nuovi spazi pubblici sono occasione di scambio d’informazioni e opinioni tanto da meritare molti inutili tentativi di censura. E, certo un po’ estensivamente, si sostiene che «la caffeina ha influenzato l’illuminismo, l’esplosione della scienza e il razionalismo… contribuito alla rivoluzione scientifica e quella industriale». Tra i suoi fans, ferventi sostenitori come Voltaire, Diderot e Michelet, che efficacemente sostiene «illumina in un istante la realtà delle cose con il lampo della verità».
Rimpiazzando almeno parzialmente l’uso dell’alcol, caffè e tè esaltano lucidità e potenziamento cognitivo, ideali nel passaggio dal lavoro fisico dei campi a quello di precisione del tener registri e manovrar macchinari. Nuovi rituali scandiscono la giornata – se T. S. Eliot farà dire a un suo personaggio «Ho misurato la mia vita con cucchiaini da caffè» – fino a far della caffeina un nuovo bene di lusso quotidiano, specialmente per quanto riguarda il caffè, «droga perfetta… anche per l’ascesa del capitalismo».
Resta, per converso, da dire della felice strategia evolutiva delle nostre piante che, utilizzando la specie umana – e le sue predilezioni – come vettore, ne ha consentito un mirabile accrescimento e diffusione in termini di numeri e habitat conquistati. Dalle tutto sommato ristrette zone di origine, ad esempio, a quasi undici milioni di ettari coltivati a caffè e più di quattro per il tè.