Se c’è un artista che ha mutato l’idea di «immagine» è Sigmar Polke, perché ne ha valorizzato il medium. Image Magie! (Man Ray). L’opera è magia quando sfrutta il medium in senso non mediatico, ma medianico: il tramite tecnologico tiene in vita l’alchimia dell’opera – prima forma di magia, trasformazione di materie, solide e liquide, in figure – tanto da generare spettri fra la sua presenza e noi. Fantasmagorie.
La prima antologica italiana di Polke, allestita a Venezia Palazzo Grassi e curata da Elena Geuna e Guy Tosatto, presenta novanta opere in un percorso cronologico a ritroso, letteralmente retrospettivo, cioè ricostruttivo: un’anamnesi dall’ultimo decennio di attività agli anni Sessanta, al tempo in cui Polke era apprendista vetraio. Con la pratica sul vetro si è calato nel ruolo di un moderno Leon Battista Alberti e ha moltiplicato e ispessito, sovrapposto e stratificato la «finestra sul mondo». Mondo e finestre non più delle convenzioni rappresentative. In Polke percipiente e percepito sono parentesi degli strumenti, dei dispositivi, dei difetti che costituiscono il guardare e il rendere visibile. Una fenomenologia della percezione in forma artistica.

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Veduta dell’installazione a Palazzo Grassi

Nell’atrio le sette monumentali tele del ciclo Axial Age (2007) avvolgono il visitatore, come scenari di una pellicola fotografica creata, insieme, da pittura e illustrazione. Su tessuti semitrasparenti e a pieghe (la tela pittorica), si distendono enormi membrane traslucide, osservate e indicate da commentator grafici (l’illustrazione) e che, con la rifrazione della luce, prendono tonalità violette. Viviamo un’«età assiale» omologa ai secoli fra l’800 e il 200 a.C., quando l’uomo ha posto le basi della cultura occidentale (Karl Jaspers, Achsenzeit). I nuovi media, mentre gestiscono pictures del passato, configurano images del futuro, riproduttive e riflessive della percezione. Fino al pensare, ma esprimendolo, il non vedere (Derrida).

Perciò, al di là dell’omaggio all’autore, a trent’anni dal Leone d’oro per la pittura vinto alla Biennale di Venezia, un filo rosso attraversa la mostra. Anche i dipinti a raster (Zirkusfiguren, 2005; Interieur, 1966…) sono solo pretestuosamente uno sconfinamento fra forme espressive – pittura, fumetto, foto giornalistica. La tecnica del retino tipica della stampa, che rompe gli argini tra l’arte e la vita quotidiana, è un viatico per accentuare i disturbi della visione. Polke, più che a Lichtenstein, è vicino a Seurat. E a Joseph Beuys, perché il lavoro sulle materie è linfa di temi politici: Schiesskebab (1994), sulle guerre fratricide della ex Jugoslavia, Hochstand (1984), sui campi di concentramento, Amerikanisch-Mexikanische Grenze (1984), sulle frontiere.

Piastre dipinte sul recto e sul verso (Laterna Magica, 1988-1992), manipolazioni con la fotocopiatrice (Für den Dritten Stand bleiben nur noch die Krümel, 1997), ingrandimenti della trama fotografica (Man füttert die Hühner, 2005) sono accomunati dall’intento di trasformare il quadro in esperienza visiva. I comportamenti delle sostanze hanno un ruolo chiave. Dal 1982 al 1993 Polke produce la serie dei Farbprobe, 50×40 cm, una cernita di reazioni di materie eterogenee all’amalgama, ad esempio polveri metalliche con resine, smalto, nerofumo. Usa anche minerali preziosi e carichi di storie, come il lapislazzulo, il porpora o la malachite, sostanze velenose, come il realgar, o psicotrope (i funghi di Alice im Wunderland, 1972).

In questa mostra segretamente cucita sul fil rouge della percezione attiva, non poteva mancare l’opera in quattro parti Hermes Trismegistos (1995). È la rimediazione in resina e lacca, su tessuto trasparente e a scala gigante, di una tarsia marmorea del pavimento del Duomo di Siena, con la figura mitica di Ermete padre dell’alchimia. Un video dei Venice Films (1983-86) documenta, invece, l’installazione premiata con il Leone d’oro, Athanor (1986): pittura igroscopica alle pareti del Padiglione tedesco, che cambia colore al variare delle condizioni atmosferiche e di umidità. L’«athanor», in alchimia, è il forno a fuoco perpetuo di combustione e trasmutazione dei metalli. Ricontestualizzato, allegorizza la coscienza, sulla pelle della Germania, dei forni costruiti.

A un altro livello i film di Polke, in proiezione al Teatrino di Palazzo Grassi il prossimo autunno, sono un modo per pensare lo scorrere del suo tempo. L’artista interviene sul girato con iridazioni, sfocature, solarizzazioni e dissoluzioni della pellicola che la rendono desueta, trasmessa al futuro del nostro gusto vintage.