È molto stretta l’inquadratura del progetto delle sinistre unite. Ritaglia le facce note, leader di piccoli partiti, di correnti di un grande partito, di associazioni. Un racconto conosciuto, battuta per battuta, e non è solo abituale pigrizia da sistema mediatico. È veramente questa la sinistra unita – tutta di uomini – che in Italia si mette in cammino?

C’è una direzione positiva nel coordinamento delle sinistre proposto Nichi Vendola, cambia il clima dopo il risultato conseguito con la lista L’Altra Europa con Tsipras, originato dalla giusta intuizione dell’Europa come reale spazio dei conflitti, e la battuta d’arresto successiva. Ma cosa garantisce – al di là delle intenzioni – che non si percorrano le solite strade di sterili patti tra ceti politici?

Proviamo a rovesciare l’inquadratura e il racconto. A quale popolo si rivolge la sinistra? Sì, popolo, uso per scelta una parola diventata un tabù, come se popolo fosse di per sé sinonimo di destra, di pulsioni reazionarie. E la uso, questa parola, perché il sociale – nell’uso corrente e quasi automatico dei dibattiti politici – rischia di essere senza carne e sangue. E soprattutto rischia di lasciare senza corpo chi fa politica, come è capitato nei cambiamenti che hanno segnato le grandi organizzazioni di un tempo. Perfino i movimenti – che del sociale dovrebbero essere l’espressione – rischiano di perdere la spinta originaria che li ha resi tali, chiusi in un’autorappresentazione che continua ad alimentarsi di stessa.

Allora, popolo. Popolo di sinistra. Per me sono donne e giovani, prima di tutto. Precari e precarie che combattono con un lavoro frammentato e sottopagato. Madri single che comuni sempre più impoveriti non riescono più a sostenere, neanche con gli asili. Chi vede minacciato il proprio posto di lavoro. E naturalmente pensionati a cui vengono erosi passo dopo passo i diritti. Persone che con affitti che non riescono più a pagare, ma anche case di proprietà troppo costose per redditi sempre più bassi. E costi sanitari sempre più alti. Oppure famiglie costrette a condividere spazi piccoli, o convivenze di estranei neanche giovani, in una cultura che non prevede i monolocali a basso costo. Sono povertà che vengono nascoste dalla narrazione corrente dei media, ma anche dalla politica mainstream.

Dettagli, mi si potrebbe obiettare, una perdita di tempo. Questo è il punto. Non si tratta di minuzie da lasciare alle associazioni, al più alla passione più o meno solitaria di militanti di base. Questa è vita. Queste sono le persone, queste è il popolo con cui fare politica. Questo è lo spazio lasciato vuoto da un Pd sempre più separato dal mondo del lavoro.

È un popolo che ha paura, come sanno bene Matteo Salvini e tutte le destre populiste europee. È a loro che vogliamo lasciarlo? Più che la paura, del popolo oggi temo l’indifferenza. Come difesa dalla mancanza di speranza. Speranza di cambiare. Perché esistono forme di reciproco aiuto, una rete di affetti – tra i giovani ma non solo – che regge l’urto violento del neo-liberismo. È che non basta più. È un po’ come il Distretto 12 di Hunger Games, prima che Katniss partecipi ai giochi. Il potere pervade tutto. Si può riuscire a non morire di fame, ci si vuole molto bene, ma non basta. Occorre una speranza, occorre lottare.

Fare politica oggi è lavorare per creare spazi comuni, in cui tutti possano incontrarsi. Chi lotta per la casa, come chi sa tutto delle politiche di genere, o del Ttip. Chi organizza campagne o raccoglie firme, come chi è se stesso, con la propria fatica di vivere e di riconoscersi nei problemi comuni. Aspetto non secondario di una proposta e una pratica politica. Spazi sparsi nelle città, nei quartieri. Luoghi fisici, in cui incontrarsi, scambiare, organizzare e organizzarsi. Accogliere ciò che esiste senza inglobarlo, elaborare idee, sostenere lotte, rendere visibili nuove facce, di donne e anche di uomini. Luoghi simbolici delle molteplici connessioni in Italia e in Europa, a cui internet può dare strumenti utilissimi di confronto, comunicazione e democrazia. Senza pretendere di guidare dall’alto, senza lasciare tutto all’irresponsabilità del caso. C’è un enorme lavoro da fare. Ne vale la pena.