Una class action contro Trump, contro le sue «politiche incostituzionali», contro i suoi abusi di potere nei confronti della carovana dei migranti centroamericani in marcia verso gli Stati uniti. A promuovere l’iniziativa è stata la ong Nexus Services, che, a nome di sei componenti della carovana ha presentato giovedì scorso presso la Corte distrettuale di Washington una denuncia contro il presidente degli Stati uniti e altri esponenti dell’amministrazione federale, a cominciare dall’Ice (United States Immigration and Customs Enforcement), l’agenzia statunitense responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione.

Obiettivo della class action, ha precisato l’associazione, è quello di «proteggere individui e famiglie dal comportamento xenofobo di Trump e della sua amministrazione», come pure dai civili armati che si stanno dirigendo alla frontiera degli Stati uniti per rispondere alla chiamata alle armi del presidente. Il quale è arrivato a suggerire ai soldati di considerare i sassi «come fossero fucili» e di aprire il fuoco nel caso qualcuno li lanciasse.

Intanto, dopo aver percorso circa 1700 km, la carovana sta arrivando a Città del Messico – il primo gruppo di circa 470 persone è già lì da domenica – toccando un altro importante traguardo. Non stanno arrivando tutti insieme, come più o meno era avvenuto finora. Nello Stato di Veracruz, il cui governatore, Miguel Ángel Yunes, prima si era impegnato a garantire il trasporto dei migranti verso la capitale e poi si era rimangiato la parola, si sono separati in più gruppi, esponendosi così a maggiori pericoli.

La promessa mancata – ha denunciato la sezione messicana dell’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani – «ha avuto come risultato la frammentazione della carovana, la cui compattezza era la principale fonte di protezione», obbligando i migranti a salire su camion e su macchine di privati, con il rischio di cadere nelle mani del crimine organizzato.

A Città del Messico le autorità hanno allestito un accampamento nello stadio Jesús Martínez Palillo, nel municipio di Iztacalco, installando serbatoi di acqua potabile, predisponendo riserve di cibo e mettendo a disposizione servizi medici e consulenze legali per le migliaia di migranti che sono già arrivati o arriveranno nei prossimi giorni con le carovane successive. Saranno, tutti loro, chiamati a decidere se sollecitare l’asilo e fermarsi o continuare il cammino in direzione degli Stati uniti.

In Messico, a partire dal primo dicembre, data dell’insediamento di Andrés Manuel López Obrador, troverebbero un presidente che ha promesso loro – ma si tratta appunto solo di promesse – regolarizzazione e posti di lavoro. Al confine con gli Usa avranno invece di fronte un contingente di almeno 5mila soldati e ancor più temibili milizie nazionaliste ed è impensabile che riescano ad entrare contando sulla loro forza numerica. Potranno presentare singolarmente domanda di asilo – le legge federale riconosce loro il diritto di farlo -, ma, con l’inasprimento delle politiche migratorie, non sarà facile per loro ottenere l’ingresso nel paese. Passate le elezioni di mid term, è probabile che i riflettori si spengano sul loro esodo disperato, o, a seconda dei punti di vista, sul loro viaggio della speranza. E potrebbe andare ancora peggio.

Sono, paradossalmente, l’espressione perfetta del sogno americano, della speranza, cioè, che attraverso la fatica, il coraggio, la determinazione sia possibile raggiungere il benessere economico e la felicità. Ma il loro sogno è destinato con ogni probabilità a infrangersi sulla frontiera.