Da sempre alla ricerca di un equilibrio tra l’ingenuo e il sentimentale, Orhan Pamuk oscilla tra le romantiche tentazioni di quella scrittura che Schiller fa discendere direttamente dal dettato della natura, e le moderne angosce derivate dalla consapevolezza dello scarto che separa i propri mezzi espressivi da ciò che si aspira a rappresentare. Ma, per la verità, l’indole dello scrittore turco sembra sbilanciarlo ancora, e forse felicemente, verso una spontanea e appagata fusionalità di paesaggi mentali e romanzeschi, dove trionfano i sentimenti e arretra l’intelletto.

Proprio questo stato della mente, questa nostalgica inclinazione, questa evocatività mai sazia di echi del passato è quanto rinchiude il titolo del suo ultimo romanzo, La stranezza che ho nella testa (traduzione di Barbara La Rosa Salim, Einaudi, pp. 574, euro 22,00). Protagonista Mevlut Aktas, nato poverissimo sul finire degli anni ‘ 50 in un villaggio dell’Anatolia centrale, e da ragazzo approdato a Istanbul, le cui trasformazioni seguirà nei quarantatre anni delle sue peregrinazioni in qualità di venditore ambulante, mentre la città passa da tre a tredici milioni di abitanti e i quartieri della sua infanzia vegono rasi al suolo, decretando che «il tempo delle baracche è scaduto».

Al centro della vicenda, il rapimento di una fanciulla desiderata e, intorno, un affollamento di voci appartenenti a tre generazioni di parenti più o meno stretti, dei quali Pamuk offre un albero genealogico, con tanto di «Indice delle persone» e «Cronologia», apparati di un intrigo nel quale teme, e al tempo stesso desidera, che ognuno di noi si perda e si ritrovi. Facili associazioni di parole vengono in mente nel rendere conto di questo romanzo abilmente confezionato con quella zuccherosità di ingredienti cui già ci aveva assuefatto la storia dell’ossessione amorosa raccontata nel Museo dell’innocenza, anche qui fra corteggiamenti del Kitsch e meticolose dedizioni all’inventario capillare dei singoli gesti di ogni personaggio.

Sulla scena di La stranezza che ho nella testa avanzano dunque i protagonisti di un romanzo radicalmente polifonico e compiutamente dialogico, dove ognuno è il responsabile portatore della propria parola pronunciata in prima persona, in una dialettica corale che include, non più autorevole di altre, anche la voce del narratore.

Ciò che più conta, in questo romanzo, la vicenda le cui conseguenze si riverberano sulle oltre cinquecentocinquanta pagine dell’intreccio, ha inizio durante un ricevimento di nozze, quando Mavlut incrocia gli occhi della giovane Samiha e ne resta stregato. Per tre anni le scriverà lettere d’amore senza riceverne risposta, ma ingannato sul nome di lei indirizzerà inconsapevolmente quelle lettere alla sorella maggiore, Rayiha, purtroppo non altrettanto bella. Quando l’autore del raggiro, il cugino Süleyman (anche lui, innamorato di Samiha) organizzerà per Mevlut il rapimento della fanciulla, a presentarsi avvolta dal velo e protetta dal buio sarà non la reale destinataria delle lettere ma colei che, di fatto, le ha ricevute: la tanto bruttina Rayiha.

Un lampo nella notte illumina il volto della ragazza, che di buon grado ha acconsentito al rapimento per sfuggire il matrimonio combinato dalla famiglia: Mevlut la vede, prende coscienza del fatto che chi ha di fronte non è la spasimata Samiha, e tuttavia tace. Forse la sua profonda dignità, o una ancora più radicale sottomissione al destino fanno sì che Mevlut lasci andare le cose per il loro corso e sposi dunque Rayiha, che lo ricambierà con un amore solido e capace di renderlo felice. Solo dopo la morte di lei, l’affranto Mevlut inaugurerà un nuovo capitolo della sua vita sposando finalmente Samiha, che nel frattempo si è separata dall’uomo che aveva aiutato Mevlut a scriverle le lettere d’amore, il comunista di famiglia curdo-alevita Ferhat, tra i personaggi più convincenti del romanzo.

Intorno, orgogliosi genitori, intriganti zii, competitivi cugini, fratelli, sorelle, figli, nipoti, un potente imprenditore, un virtuoso calligrafo sceicco del Tempio, che avanzano sulla scena ognuno offrendo il proprio punto di vista, in una orchestrazione di voci che rimanda al Faulkner di Mentre morivo – mentre sullo sfondo si susseguono tre colpi di stato, l’inaugurazione del primo ponte sul Bosforo, l’invasione di Cipro, il massacro degli Aleviti e soprattutto la proliferazione dei nuovi quartieri di Istanbul, ritratta nei suoi anfratti più poveri e desolati. Quella desolazione nelle cui viscere amorevolmente si addentra l’ambulante Mevlut, che vende la boza, bevanda degli ottomani derivata dal grano fermentato, poi passa al gelato, poi al riso, e che conoscerà lavori meno gravosi e più remunerativi, ma non per questo abbandonerà le amate strade della capitale, dove vendendo le sue bevande, che ormai più nessuno vuole, può tuttavia «osservare i passanti» e abbandonarsi alla «stranezza» che ha nella testa.