Ci sono storie che per essere raccontate vanno strappate all’oblio. Di storie finite in un cono d’ombra e non illuminate dalla memoria, il genocidio cambogiano ne ha fin troppe.

«Se riesci a mantenere il segreto hai già vinto metà della battaglia». Era uno slogan dei Khmer Rossi, che giunti al potere in Cambogia nell’aprile del 1975 cercarono di imporre una terrorizzante utopia politico-sociale comunista che porterà in tre anni alla morte di quasi due milioni di persone. Un quarto dei cambogiani morì tra massacri, esecuzioni di massa, deportazioni, lavori forzati e carestie. Il paese andava ricostruito, era «l’anno zero», tutto doveva ricominciare, il passato non esisteva. La parola d’ordine era silenzio e obbedienza assoluta alla Angkar, «l’organizzazione» che aveva il compito di riportare il paese, ribattezzato Kampuchea Democratica, a uno stato autenticamente comunista non contaminato dalle idee occidentali e dai privilegi borghesi. Ideologo e guida della Angkar era Pol Pot, uomo che amava la clandestinità e il segreto, tanto da aver cancellato memoria del suo passato (in realtà di chiamava Saloth Sar) e da disporre l’uccisione di chiunque potesse mettere in dubbio il suo progetto.

Al regime dei Khmer Rossi sono seguiti anni di guerriglia e anni di difficile ricostruzione in cui la priorità era più dimenticare che ricordare. La Cambogia ha iniziato da poco a fare i conti con la storia. Lo scorso agosto a quasi quarant’anni dall’inizio dei massacri un tribunale speciale ha pronunciato delle sentenze di ergastolo per Khieu Samphan e Nuon Chea. Oggi ultraottantenni, furono ai vertici dell’«organizzazione» e complici ed esecutori del progetto di Pol Pot. Per anni sono stati liberi cittadini. Come se Himmler e Göring avessero vissuto indisturbati in Germania fino agli anni Ottanta. Ma nel paese del sud-est asiatico, sono stati in pochi a pagare per il genocidio e tutti troppo tardi. Pol Pot è morto nel ‘98 da uomo libero e ancora convinto delle sue idee. «La mia coscienza è a posto» disse al giornalista Nate Thayer pochi mesi prima di morire. La rimozione ha anche una ragione politica. Negli ultimi ventun anni il paese è stato governato da un premier autocrate, Hun Sen, ex comandante dei Khmer Rossi fino al 1977 e assai poco interessato a fare luce su quello che è stato. Ma ci sono storie che stanno uscendo dall’ombra.

Sihanouk, il principe

Don’t Think I’ve Forgotten (Non pensare che mi sia dimenticato) è un film documentario presentato quest’anno, diretto e realizzato dal regista newyorkese John Pirozzi che ha raccolto le storie della scena musicale cambogiana che fu spazzata via dal regime dei Khmer Rossi. Il film ha richiesto quasi dieci anni di lavoro, ma alla fine è riuscito a salvare il ricordo di un mondo culturale che fu annientato dagli anni della guerra civile e del regno del terrore, recuperando vicende umane e canzoni di una stagione perduta.

Negli anni Sessanta il sud-est asiatico era lo scenario in cui le grandi potenze, Usa, Unione Sovietica e Cina, si preparavano a misurare la loro forza. Il fronte dello scontro tra capitalismo e comunismo si stava spostando in Vietnam. La Cambogia, liberatasi dal controllo coloniale francese, appariva però ancora come un paese neutrale e relativamente pacifico in un mondo in cui stava divampando un incendio. La capitale Phnom Penh era una città vivace e con una scena culturale all’avanguardia. Lo stato era guidato dal principe Norodom Sihanouk che aveva rinunciato al trono per diventare primo ministro, e cercava di barcamenarsi con cinismo e opportunismo in uno scacchiere internazionale sempre più complesso. Era un amante delle arti con la passione per il cinema e si cimentava a tempo perso nella regia di film sempliciotti in cui cercava di documentare la vita in Cambogia. Incoraggiava la cultura, componeva musica e spesso si esibiva in un repertorio di brani del folklore khmer, ma anche in canzoni francesi e inglesi e suonava il clarinetto e il sassofono. Come ha scritto lo storico Philip Short la Cambogia visse un’effimera età dell’oro, «per i ricchi era un paradiso orientale governato da un affascinante principe playboy». Sihanouk si dilettava in eventi mondani e concorsi quali «il premio all’auto più splendida e al suo proprietario». Gli occidentali si sentivano a casa. In questo mondo a parte fioriva una cultura musicale che recepiva gli echi della rivoluzione rock. La guerra in Vietnam prima di portare le bombe, fece arrivare in Cambogia le radio militari e la musica dei Beatles, dei Rolling Stones, dei Doors. I giovani di Phnom Penh ne furono conquistati e per più di un decennio la capitale sviluppò una scena musicale unica nel suo genere e senza rivali in quest’angolo di mondo. Il rock e il pop cambogiano erano il simbolo della vitalità del paese, ma anche un baluardo di una generazione contro la minaccia incombente della guerra.

Killing Fields

Le star di quegli anni si chiamava Sinn Sisamouth, accanto a lui le cantanti Ros Sereysothea e Pan Ron. Erano artisti che fondevano le tradizioni locali alle nuove tendenze, passando da sdolcinate ballate romantiche a influenze psichedeliche, surf rock o r‘n’b. Arrivarono poi i bombardamenti a tappeto degli Usa ordinati da Nixon, il governo fantoccio di Lon Nol, la guerra civile e la vittoria dei Khmer Rossi. E la musica in Cambogia cessò di suonare.

Sinn Sisamouth aveva iniziato a incidere alla fine degli anni Cinquanta e aveva all’attivo centinaia di canzoni e decine di successi, era un crooner, ma si avvicinò al rock negli anni Sessanta e scelse di esibirsi con una band alla maniera degli artisti americani. A lui si deve una celebre versione khmer di House of the Rising Sun. Negli anni della guerra civile fu costretto a cantare canzoni di propaganda per il regime filoamericano di Lon Nol. Quando i Khmer Rossi vinsero e occuparono la capitale venne deportato e fu ucciso in uno dei tanti «killing fields» che trasformarono quegli anni la Cambogia in un cimitero. Lo strapparono alla famiglia, e al figlio disse: «Se anche dovessi scomparire, la mia voce sopravviverà». Si dice che prima di essere ucciso chiese di poter cantare una sua canzone per un’ultima volta.

Ros Sereysothea venne battezzata la «voce d’oro della capitale reale» dallo stesso Sihanouk, divenne una diva anche del cinema e fu anch’essa conquistata dal sound americano tanto da riproporre Proud Mary dei Creedence Clearwater Revival. Dall’«anno zero» non si è saputo più nulla di lei. Secondo quanto hanno raccontato le sorelle che le sono sopravvissute, in quanto artista di fama fu una delle prime vittime del furore degli uomini di Pol Pot. Il nuovo stato che doveva sorgere sotto il controllo dell’Angkar doveva ripartire dalle radici. La Kampuchea Democratica non ammetteva né borghesi, né intellettuali, né tantomeno artisti. Anche Pan Ron che amava duettare con Sinn Sisamouth e aveva portato a Phnom Penh il twist, il mambo e il cha cha cha, scomparve nel nulla nel 1975.

Questa storia è anche più sconvolgente se si ripercorre la biografia di Pol Pot. Negli anni Cinqunta infatti, tornato in Cambogia dopo un’esperienza di studio a Parigi, dove era entrato in contatto con le idee comuniste, iniziò un periodo di attivismo clandestino a cui associava una vita da bon vivant. Secondo le testimonianze che ha raccolto Philip Short, Saloth Sar (al tempo aveva ancora questo nome) guidava un’elegante berlina nera Citroën, adorava la musica e amava la danza e i balli occidentali e corteggiava una ragazza del bel mondo. «Ballava molto bene, nello stile occidentale, con la ragazza fra le braccia» ricordava un suo conoscente dell’epoca. Avrebbe potuto immergersi nella vita frenetica della nascente metropoli, ma radicalizzò le sue idee e scelse la rivoluzione fino al punto di odiare un mondo di cui era stato parte.

John Pirozzi si è appassionato alla storia della musica cambogiana nel 2001 quando si è trovato a Phnom Penh per le riprese del film di Matt Dillon City of Ghosts. Entrò in possesso di un cd che raccoglieva i successi di quella scena ormai smarrita. «C’erano splendide chitarre surf – ha detto -, assoli e riff rock uniti a straordinarie voci femminili, tutto con un’autentica sensibilità orientale». Non era semplice imitazione della musica occidentale, era qualcosa di nuovo e di unico. Da qui nacque l’idea di realizzare un film che ricordasse quegli artisti e ricercasse chi di quella generazione riuscì a salvarsi. Il documentario è stato frutto di un lungo e meticoloso lavoro. Il regista, che ha al suo attivo anche alcuni video con rock band come Queens of the Stone Age e Calexico, ha avuto molta difficoltà a reperire materiale originale degli anni Sessanta. Il terrore di Pol Pot portò ai massacri, ma anche alla distruzione fisica della cultura: libri, dischi, fotografie, filmati vennero bruciati. È stata quindi necessaria una meticolosa ricerca negli archivi delle agenzie di stampa che avevano inviati in Cambogia in quegli anni, poi un lavoro di indagine per cercare i musicisti superstiti e i parenti di quelli scomparsi. Il materiale originale emerso non è stato molto, tanto da costringere il regista ad arricchire il racconto con ricostruzioni girate con attori e costumi d’epoca. Ma alcuni testimoni sono stati trovati, ognuno con una storia fatta di rimpianti e di orrore. Sono reduci, salvatisi fuggendo o mentendo al regime. «Le star di prima grandezza come Sinn Sisamouth – ha detto Pirozzi – erano celebrità e furono facilmente identificabili quando i Khmer Rossi presero il potere, ma i loro musicisti non erano così noti e alcuni riuscirono a salvarsi. Siamo riusciti a contattarli e a fargli raccontare la loro storia».

Uno di questi è Touch Seang Tana, oggi è noto soprattutto per il suo lavoro a difesa del fiume Mekong e a tutela dei delfini che ancora popolano il fiume anche se a rischio estinzione. Negli anni Sessanta era il leader di una band chiamata Drakkar. Ha ricordato: «Ascoltavamo i Beatles, gli Stones e i Bee Gees e suonavamo nei club di Phnom Penh». Con l’arrivo della dittatura comunista, come tutti gli abitanti della capitale, fu costretto a lasciare la città e a trasferirsi in un campo di lavoro vicino alla città di Battabambang. Nascose la sua identità, disse di essere un contadino e sopravvisse. Ma un giorno una delle guardie lo riconobbe. Pensò che la fine fosse arrivata. Ma scoprì con grande sorpresa che il suo aguzzino era un amante della musica, non lo denunciò e gli chiese di cantare delle canzoni per lui. «Io cantai alcuni brani di Santana. E mi fece vivere. Anzi mi tolsero dai campi e mi fecero guidare un carretto, che era un lavoro meno duro e, per le circostanze, molto buono». Touch Seang Tana è tornato sul palco quest’anno dopo quarant’anni di silenzio, proprio in occasione della prima proiezione del documentario Don’t Think I’ve Forgotten tenutasi a Phnom Penh. Il film è stato presentato lo scorso 7 settembre per la prima volta anche negli Stati Uniti, nel corso del Cambodia Town Film Festival di Long Beach in California, un festival ispirato dalla nutrita comunità di esuli cambogiani fuggiti alla guerra e rifugiatisi sulla west coast dagli anni Settanta.

La scena rock cambogiana non si è di fatto mai ripresa dagli anni bui. L’utopia di Pol Pot collassò su se stessa. Dopo 3 anni 8 mesi e 20 giorni di terrore i vietnamiti invasero la Cambogia e scacciarono nella jungla i Khmer Rossi. Seguirono anni di disordini e terrorismo. L’occupazione vietnamita finì nel 1992, gli ultimi khmer si arresero solo alla fine degli anni Novanta. Il paese si è risollevato, ma molto è andato smarrito. La ricchezza di quel mondo culturale in cui confluivano ottimismo post-coloniale e la creatività degli anni Sessanta non è più ritornata.

Vite difficili

La principale rock band cambogiana oggi si chiama Cambodian Space Project. È guidata dalla cantante Srey Thy la cui vicenda personale racconta l’altra storia del paese, quella del faticosissimo ritorno alla vita dopo anni di violenze e la difficile sfida per emanciparsi dalla povertà.

Originaria di Prey Veng, una delle province più povere, Thy iniziò a lavorare a cinque anni nelle risaie, a nove anni passò alle piantagioni di gomma, a 19 anni venne rapita e costretta a prostituirsi. Lavorava in un bordello mascherato da centro massaggi. Quando non aveva clienti veniva legata con un filo elettrico per non scappare, finché un’altra ragazza l’aiutò a fuggire. Si ritrovò libera ma con soli due dollari e mezzo in tasca. Si ricordò la sua passione dell’infanzia, il canto, e iniziò a lavorare nei karaoke bar con uno stipendio di 100 dollari al mese, i proprietari spesso le trattenevano parte dello stipendio non giudicandola abbastanza carina. Nel 2009 incontrò un musicista australiano Julien Poulson con cui decise di fondare i Cambodian Space Project. La loro comune ispirazione era proprio la musica degli anni d’oro riletta in chiave moderna. Nel 2011 è arrivato il loro primo album, A Space Odyssey. Oggi una cicatrice sul polso le ricorda il suo passato da schiava, ma con la sua band si è esibita in tutto il mondo anche in festival prestigiosi come l’SXSW di Austin e non ha rinnegato le sue radici. I Cambodian Space Project suonano spesso nei villaggi poveri del paese e Thy è stata nominata ambasciatrice dell’Onu per la campagna contro la violenza alle donne.

Un altro baluardo del rock cambogiano sono i Dengue Fever, band più cosmopolita. Anche qui alla guida c’è una rocker al femminile, Chhom Nimol. All’attivo la formazione ha diversi album ed esibizioni in festival internazionali accanto a Radiohead, Flaming Lips e MGMT. La carriera del gruppo inizia a Long Beach dove Zac e Ethan Holtzman, due musicisti americani infatuati del pop cambogiano scoperto durante un viaggio, incontrarono in un club la cantante trasferitasi da qualche anno in California. «Fui sorpresa – ha ricordato Nimol -. Due americani che mi chiedevano dei classici del mio paese e mi parlavano di Ros Sereysothea». La diva della Phnom Penh degli anni d’oro è una delle ispirazioni a tutt’oggi dei Dengue Fever e Chhom Nimol accende ancora una candela sul palco quando canta le sue canzoni. La memoria di quello che accadde è parte del loro immaginario. Un loro brano 1000 Tears of a Tarantula, ricorda il supplizio di un’artista costretta a cantare per i suoi torturatori sotto il sole fino allo sfinimento e alla morte. La band è stata anche una delle maggiori ispirazioni per il regista Pirozzi all’inizio della sua ricerca musicale, tanto che nel 2005 realizzò con loro un documentario intitolato Sleepwalking Through the Mekong in cui documentava il loro tour cambogiano.

«In Cambogia la musica degli anni d’oro è ancora molto popolare. È la storia di queste canzoni che è andata perduta» ha detto Pirozzi che ha in programma ora la pubblicazione di un doppio cd con la colonna sonora del documentario e un corposo cofanetto con un libro molto dettagliato. Per un intero popolo la memoria è ancora una ferita aperta. «Se riesci a mantenere il segreto hai già vinto metà della battaglia», ma ricordare vuol dire rompere questo codice di segretezza e riconquistare parte di quello che si è smarrito. Primo Levi disse che di fronte al genocidio «comprendere è impossibile, conoscere è necessario». In Cambogia questo vuol dire recuperare le storie perdute e riascoltare anche quelle canzoni che la follia dell’utopia di Pol Pot avrebbe voluto cancellare per sempre. «Se anche dovessi scomparire, la mia voce sopravviverà».