Da qualche giorno «La saetta» circola liberamente per le strade, nelle piazze, nei parchi, insomma un po’ dappertutto, e non ci sarà modo di tornare indietro e fermarla: ormai è libera da ogni confine e continuerà la sua evoluzione. La saetta in questione è «Pokémon Go», nuova applicazione per tablet e smartphone rilasciata in questi giorni in Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti, attesa in Italia fra pochi giorni. Come oramai molti sanno, si tratta di un «gioco» di realtà aumentata basato sull’universo creato dal giapponese Satoshi Tajiri esattamente vent’anni: in origine era un videogioco per Game Boy e poi un cartone animato di enorme successo incentrato proprio sulle creature chiamate Pokémon, e cioè animali immaginari che vanno catturati e allenati per poi farli combattere tra loro.

La grande novità che, anche fra numerose critiche, sta già facendo il giro del globo, è che il gioco appena uscito pone chi lo usa in uno stato d’interattività con l’ambiente circostante. Tramite smartphone o tablet infatti lo scopo dell’applicazione è quello di catturare i vari Pokémon andandoli a cercare nel mondo «reale», una novità quindi che spinge le persone a muoversi e interagire con l’esterno: non più una realtà simulata come succedeva per i videogiochi tradizionali, ma quasi un reale che diviene simulazione e che con essa si ibrida. Le conseguenze pratiche, teoretiche e filosofiche sono moltissime e assai interessanti ed emergeranno probabilmente solo nei prossimi mesi. Finalmente comunque la realtà aumentata, creata dall’incontro dell’americana Niantic, società Google, con l’universo Pokémon e Nintendo giapponese, a giudicare dall’incredibile impatto che ha avuto in questi giorni, sembra aver preso definitivamente piede.

Anche se è uscita solo da pochissimo, l’applicazione inaugurerà probabilmente una nuova fase, sia nel campo dei videogiochi che in quello, forse più importante, dell’uso e delle pratiche tecnologiche. Ancora una volta quindi Pokémon si fa portatore di un’accelerazione e di uno slittamento di paradigma quasi kuhniano, come già avvenne nella seconda metà degli anni novanta quando aveva di fatto inaugurato un nuovo modello di penetrazione ed influenza della cultura pop giapponese nel resto del mondo. Come ha fatto acutamente notare il sociologo Marco Pellitteri nel suo volume «Il drago e la saetta», la creatura di Tajiri – «La saetta» sarebbe infatti la coda di Pikachu, il Pokémon più famoso – rappresenta simbolicamente una distinta strategia d’innesto culturale in Occidente. E cioè un immaginario mediatico veicolato non solamente attraverso animazioni seriali e manga – come era successo nella prima fase conclusasi nei primi anni novanta – ma anche attraverso il mondo dei videogiochi, il merchandise e un approccio qualitativamente molto diverso.

Il fenomeno Pokèmon in questi vent’anni ha avuto pochi eguali nel globo, tanto per capacità di penetrazione che per estensione. Dalla sua nascita come gioco per Game Boy ha poi moltiplicato in modo esponenziale le sue produzioni: oltre alla serie animata che oramai conta quasi 1000 episodi sono usciti anche 19 lungometraggi animati, tutti campioni d’incasso al botteghino giapponese, e un live-action in collaborazione con Hollywood che dovrebbe essere annunciato a breve, proprio spinto dal successo di «Pokemon Go». Ma non finisce qui, perché l’universo creato da Tajiri conta anche numerose trasposizioni in manga e giochi di carte, treni giapponesi decorati con i suoi personaggi, automobili e anche due parchi a tema temporanei in Giappone e a Taiwan.

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