Dal titolo, alla suddivisione letteraria in capitoli/racconti, al cast hollywoodiano abilmente punteggiato di grandi attori comici, The Meyerowitz Stories, di Noah Baumbach –il secondo film Usa visto in concorso – sembrerebbe gravitare in un’aura non troppo dissimile da quella di cui Wes Anderson (con cui Noah Baumbach ha scritto due sceneggiature) aveva infuso il suo The Royal Tenenbaums. Ma entro pochi minuti dall’inizio, il nuovo lavoro del regista di Frances Ha e Mistress America, si colloca in una linea di discendenza che, invece di Salinger, punta direttamente a Woody Allen e Neil Simon. Prodotto da Netflix (la cui saga qui al festival continua, con il fondatore Ted Sarandos che prevede, viste le nuove regole sulla distribuzione in sala, che «Cannes sarà una meta meno attraente per la compagnia»), The Meyrowitz Stories è il film più ad alto budget che Baumbach abbia mai realizzato e uno dei più convenzionali. Un film «contro» cui non si può dire niente se non che gli mancano lo slancio e l’intuizione dei suoi lavori più belli e idiosincratici (tra tutti, Mistress America) e la dolorosa autobiografia degli inizi messa in scena con The Squid and the Whale.

Dopo aver parlato con disarmante franchezza delle neurosi della sua famiglia, Baumbach s’imbarca qui in una versione più patinata di un simile paradigma. Con un magnifico Dustin Hoffman, patriarca convinto di essere un geniale scultore incompreso, mentre forse è solo un artista medio, e i tre figli che hanno pagato lo scotto dei suoi matrimoni multipli e della sua certezza assoluta, e assolutamente mal riposta. Matthew (Ben Stiller) che, per sfuggire all’ombra del talento di papà vive a Los Angeles dove fa l’avvocato. Danny (Adam Sandler, bravo come in Punch Drunk Love e Funny People), a cui il padre – nelle parole di Matthew – «ha fatto mangiare un sacco di merda».

E la scialba Jean (Grace Van Patten) «per cui non c’è stata nemmeno quella». La classica riunione di famiglia, da cui scaturirà ogni sorta di recriminazione, inizia quando Danny porta sua figlia a New York, prima che lei inizi il college, e va a stare in casa di suo padre, appena pensionato dopo decenni d’insegnamento. Nella townhouse «da intellettuali» dove aleggiano i fumi etilici emanati dalla terza moglie di Harold (una simpaticamente hippie/svampita Emma Thompson), l’alternarsi delle generazioni è tutt’altro che indolore. Ansioso come al solito di fare piacere a suo padre, Danny sta cercando di inserire una delle sue sculture in una mostra collettiva organizzata dall’università.

Ma Harold, ulteriormente incattivito dal fatto che il Moma ha dedicato uno show al suo vecchio amico e rivale Judd Hirsh, esige una personale. O non se ne parla. Quando Matthew arriva da LA, armato di un consulente per gestire gli aspetti finanziari delle discendenza di Harold, le umiliazioni iniziano a partire dalla (sua) scelta di ristorante. La povera Jean non ci prova nemmeno più. È ciecamente leale e basta. Alla fine, ognuno dei tre, avrà una chiusa soddisfacente del rapporto con l’infernale genitore. Anche quando si tratta solo di un miglior taglio di capelli.