Nel 1933 Tanizaki scriveva che in Giappone l’ibridazione delle forme letterarie autoctone con quelle euroamericane aveva diffuso la convinzione che la letteratura dovesse essere improntata alla realtà e ogni tentativo di evasione fosse da considerarsi un atto vile. «Eppure anche i fiori, gli uccelli, il vento e la luna, così come le nubi fluttuanti e le gru selvatiche, sono tutt’altro che irreali – obiettava – sono espressioni della natura cui noi, uomini dell’Oriente, ci sentiamo legati a fondo, e nelle quali il nostro spirito ritrova un luogo di appartenenza».

La ricerca di un luogo al quale consegnare la propria fisionomia interiore fu una questione cruciale per gli intellettuali degli anni Tenta, e la suggestione di Tanizaki, secondo il quale questo luogo si sarebbe potuto cercare nel paesaggio naturale, racchiude implicazioni assai complesse. Il riferimento a fiori, uccelli, vento e luna è tutt’altro che casuale: la formula rimanda, sin dall’antichità, alla bellezza della natura e nel corso dei secoli è stata al centro dei principali discorsi critici in campo artistico e poetico.

In epoca Meiji si cominciarono a pubblicare le prime antologie di liriche europee e la poetica di fiori, uccelli, vento e luna assunse una ancor più marcata accezione simbolica: divenne emblema dell’antico, di un linguaggio che molti ritenevano inadeguato alla vita moderna.

L’antologia Poeti giapponesi (traduzione di Maria Teresa Orsi e Alessandro Clementi degli Albizzi, in uscita martedì per Einaudi, pp. 380, € 18,00) raccoglie componimenti di ventidue tra gli autori più significativi dal dopoguerra a oggi, un tempo lontano dall’epoca Meiji, in un paese che il conflitto e due bombe atomiche hanno trasformato radicalmente anche rispetto agli anni in cui Tanizaki meditava sulla scrittura. Tuttavia, pur nella grande varietà dei temi e delle forme, il corpus proposto dimostra che la riflessione avviata dai pionieri della poesia in verso libero è ancora attuale.

Il posto della natura
Se alcuni poeti, come Tanikawa Shuntaro e Yoshimasu Gozo, sono forse già noti al lettore italiano, molti altri risulteranno una scoperta. Il pregio maggiore della raccolta è infatti l’equilibrio tra autori più e meno noti e appartenenti a generazioni diverse, secondo un criterio che antepone tanto alla rigidità del canone quanto alle evidenze del mercato l’impegno di presentare un panorama poetico nella sua essenza e nella pluralità delle sue voci.

La natura è reale, scriveva dunque Tanizaki, non è vile ricercarvi il proprio posto nel mondo. Una medesima convinzione sembra animare la scrittura di Ishimure Michiko, poetessa di Minamata, luogo tristemente noto perché colpito da uno dei maggiori disastri ambientali del secolo scorso. Anche nei versi di Ishimure, la natura è ovunque, organica e materica, amplifica la realtà, è la cassa di risonanza dell’io poetico che si addensa, cresce e sconfina nel mondo. E lo stesso accade nella poesia di Park Yongmi, satura di sinestesie, di percezioni inedite, dove la materia è il corpo, rappresentato come una sorta di membrana porosa che fa da tramite allo scambio tra poetessa e paesaggio; un corpo in bilico come l’identità della stessa Park, giapponese di discendenza coreana.
E ancora, il paesaggio è l’oggetto di una scomposizione radicale nei versi di Akegata Misei, dove i singoli elementi sono sovrapposti, riposizionati, dove il cielo si «frantuma» in un calmo mattino e rivela drammi profondi. Ad accomunare queste autrici è il coraggio, quasi la sfrontatezza di un rapporto con il mondo che respinge le idee di limite e di ordine, rifiuta narrazioni rassicuranti e riporta in superficie tutte le colpe, i silenzi, i disagi.

L’antologia rivela infatti come una costante della poesia contemporanea giapponese sia il desiderio di riscrivere la storia nazionale, di rimetterne in discussione gli assiomi. La guerra, per esempio, nei versi di Fujii Sadakazu è «frastuono della terra», travolge la memoria e la violenta; il disastro di Fukushima, cui Wago Ryoichi fa seguire la spasmodica attesa di un mattino, stravolge ogni metro di giudizio e crea confusione, buio, silenzio, pianto.
La fine odiosa di uno scrittore torturato a morte a soli 29 anni perché comunista, che Sasaki Mikiro rievoca in un sofisticato componimento fatto di elementi sonori e citazioni, in un’alternanza di immediatezza (i suoni) e complessità (i rimandi intertestuali) invita il lettore a sentire e allo stesso tempo a conoscere. E poi Okinawa, paradiso turistico dalla storia triste, compare nelle poesie di Yae Yoichiro come la terra di morti che affiorano quieti a turbare il presente: l’indole venefica del Giappone è il tema di uno dei suoi componimenti più noti, in cui emerge la determinazione a riportare in superficie ogni colpa commessa.

Scarti semantici e grafici
La stessa vena critica attraversa lo sperimentalismo dissacrante di Irisawa Yasuo, fatto di scarti semantici, grafici, sonori, ritmici, mentre l’energia del verso di Yoshimasu Gozo spinge la lingua oltre i confini prestabiliti, ne fa l’oggetto di una stratificazione, di un’espansione audace e illimitata. E nelle immagini paradossali di Takahashi Mutsuo, i cercatori di morte sono condannati a stare al mondo, perché «il lavoro di poeta non si può fare da soli: ha bisogno dell’aiuto dei morti».

La poesia come mestiere, il suo rapporto necessario con la memoria, il linguaggio visto come giogo ma anche come possibilità: sono questi i temi che emergono con maggior evidenza e contribuiscono a rendere la raccolta, oltre che una lettura godibile, un utile strumento per la conoscenza e la comprensione della cultura giapponese contemporanea.

Arakawa Yoji lancia un’invettiva contro gli accademici, presentati come burocrati del sapere pronti a sacrificare l’umanità della poesia alla vanità e al profitto: «se vuoi raccontare un poeta levati la cravatta». Yotsumoto Yasuhiro inscena una competizione tra poesia e romanzo in cui la geometria del caso e dell’istinto si oppone all’ineluttabilità della ragione, che con bruschezza interrompe l’esperienza del bello.

Per Nomura Kiwao il poeta si misura con il tempo, tentando di afferrare la materia antica e fugace della poesia nel tentativo di dare senso al mondo. Il ricordo è invece presupposto del sentire poetico nei componimenti di Tanikawa Shuntaro, che lo riassume nel verso «e per questo io ho preso forma umana e ho persino raccontato storie di felicità»: vi si sente con enfasi il richiamo all’esperienza condivisa, e l’inquietudine nasce dalla simmetria di «ciò che poteva essere e ciò che non lo era», un avvicendamento di perturbante e rassicurante che conferisce «struttura» al mondo in cui viviamo.
La memoria, quella ferita della denuncia come quella intima del sogno e dell’infanzia, è il centro nevralgico di un poetare che cerca soluzioni sempre nuove per decifrare l’abisso personale e sociale che l’uomo si porta nell’animo. «Per me bruciare è il continuo ripetersi dell’addio» dice la fiamma in un componimento di Ooka Makoto che pare la manifestazione di un io meta-lirico.

Le poesie che compongono l’antologia provengono dagli ultimi sessant’anni, e sono un racconto dei tempi in cui si diluiscono o si condensano, si astraggono o si omettono gli eventi che si sono susseguiti: un tempo che restituisce la Storia ma anche momenti quotidiani, propri della società come dell’anima, e non rinuncia a individuare nella natura, intesa come paesaggio e come somma di elementi, un referente immediato. A distanza di quasi un secolo la preoccupazione di Tanizaki pare superata: l’antica formula si è adeguata al racconto del presente, i fiori e il vento non sono strumenti di evasione ma sanno farsi carico delle angosce più acute. Un punto però lo smentisce: questi paesaggi poetici non accolgono soltanto gli «uomini dell’Oriente», bensì aprono orizzonti infiniti, offrendo un luogo di appartenenza agli uomini dell’intero mondo.