«In ogni epoca un eroe o un saggio è venuto in nostro aiuto» recita una canzone di Hanukkah che la maestra d’asilo Nira fa cantare ai suoi bambini. Ma chi sarà questo Messia, questo Giuda Maccabeo? Per lei, quarantenne della middle class di Tel Aviv – casa nei sobborghi, marito, un figlio nell’esercito e una al liceo – il «prescelto» è Yoav, un bambino di 5 anni che frequenta il suo asilo. Si accorge di lui quando, camminando avanti e indietro di fronte alla tata venuta a prenderlo, Yoav proclama «Ho una poesia!», e recita degli incredibili versi d’amore per una certa Hagar.
La protagonista di The Kindergarten Teacher di Nadav Lapid – proiettato in questi giorni al Pitigliani Kolno’a Festival e passato a Cannes 2014 nella Semaine de la Critique – è rapita dalle parole incomprensibilmente belle e «adulte» che occasionalmente escono dalla bocca di Yoav, figlio trascurato di un ricco ristoratore e di una madre che lo ha abbandonato, di cui lui dice che è morta.

Quella di Nira – appassionata di versi proveniente da una povera famiglia sefardita in cui gli unici libri a disposizione erano quelli di preghiere -è la storia di un’ossessione: per il segreto che le parole di Yoav nascondono e per questo piccolo poeta scaraventato in un mondo che, dice lei, «odia la poesia».
Per stimolare la sua creatività gli mostra una formica, la pioggia, il cortile dei giochi dell’asilo visto dalla prospettiva di un gatto, uccide la formica davanti ai suoi occhi per svelargli la crudeltà. A qualsiasi ora resta in attesa dei suoi versi, come se fossero le parole di un profeta da cui dipendono le sorti del mondo. E lui tace e guarda di fronte a se, senza che ci sia dato sapere cosa gli passi per la testa – vittima della passione violenta della sua maestra come della trivialità del mondo da cui lei lo vorrebbe proteggere, in cui perfino la sua tata lo considera poco più che una bizzarria da freak show.                                                                                                                                        

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La violenza dei gesti nei confronti di Yoav attraversa tutto «The Kindergarten Teacher».
Mi viene sempre chiesto quanto questo film sia israeliano. Io di solito rispondo che lo è nella misura in cui è girato in Israele, in ebraico, da un regista che ci è nato. Ma comincio a pensare che intorno a me ci sia qualcosa di molto forte – anche se non so se sia tipicamente israeliano – che si riflette nel film. È la violenza di persone che non hanno freni, per cui c’è un’equivalenza fra ciò che immaginano, pensano e fanno: dichiarano la loro piena identità, recitano costantemente il loro credo.È in questa totalità che si annida la violenza. A partire dalla tata, che è come se dicesse «io sono bellissima, quindi mi merito tutto». O il padre, per cui i soldi sono tutto e l’arte è niente. E Nira stessa, per la quale l’unica cosa che conta è la prossima poesia di questo bambino. La complessità nel film è il risultato della somma di questi convincimenti elementari, convinzioni per cui tutti sono pronti a giungere alle conseguenze più estreme.

Il film si apre con il gomito del marito di Nira che colpisce la macchina da presa, e i personaggi guardano spesso in camera.
Per l’appunto anche l’incipit è violento, capiamo subito che non stiamo per assistere a qualcosa di armonico. L’immagine iniziale per me è una delle più emblematiche dei nostri tempi: un uomo su un divano che guarda uno stupido programma televisivo. E la macchina da presa non può nasconderlo, tremando ci dice che questa è una cosa orribile. Per me non si tratta di rompere la quarta parete, ma di dare forma a un terremoto emotivo e ideologico, alla disperazione che pervade il film. E in qualche modo questo corrisponde alla crociata della maestra d’asilo.

In che modo questa violenza ha a che fare specificamente con la società israliana?
La volgarità e gli stupidi tv show non sono un’invenzione israeliana: anche in questo momento ci troviamo in un paese – l’Italia – dove penso che la cultura sia sotto attacco. Però trovo che ci sia un legame diretto tra un certo militarismo e la volgarità. La lettura che suggerisco nel mio film è che Israele è un posto dove non c’è più spazio per la poesia, e le persone non sentono di doversi giustificare del fatto che la odiano.

In altre occasioni lei ha chiamato Nira una «terrorista della poesia» che vuole cambiare un mondo sbagliato.
Forse questo non è il momento più indicato per usare il termine jihadista, ma per lei è appropriato. È una donna della piccola borghesia che vuole cambiare la storia, e la sua arma è un bambino che occasionalmente dice delle parole bizzarre. Lei pensa davvero che se il mondo potesse ascoltare almeno per un secondo queste parole allora ci si accorgerebbe che quella che consideriamo la normalità non è logica. E Nira è disposta a portare questa convinzione fino in fondo, imbarcandosi donchisciottescamente in una battaglia da combattere con le poesie scritte da un bambino di 5 anni. È la concezione espressa dalla canzone che lei fa cantare agli alunni: chi è il Messia che porterà la redenzione? Per molti sarà un eroe di guerra, per la maestra d’asilo si tratta di qualcuno che ci salverà attraverso le parole e non le armi.

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