I primi anni della mia vita trascorsero in una piccola città che scendeva dai colli al mare, per risalire verso i sobborghi fitti di alberi, ceibe gigantesche e palme reali. Si andava su e giù con un tram che partiva dal porto per raggiungere il quartiere silenzioso di Vista Alegre. Prima ancora eravamo vissuti in una casa vecchia e ombrosa, con pavimenti di marmo e porte di mogano, nella via Santa Lucia non lontano dalla cattedrale: due cortili, una fontana che zampillava fra le conchiglie, piante di guava, gardenie e tuberose che profumavano di paradiso.

Mio padre insegnava Filosofia in un liceo non distante: parlava di miti greci, dei dialoghi di Platone, di Dostoevskij e di Unamuno. Recitava a memoria centinaia di versi di Santa Teresa, di Antonio Machado, un po’ meno di Lorca che aveva conosciuto a Cuba nel 1930. Trascorse tutta la sua esistenza pensando di visitare la Spagna ma non ci andò mai: i suoi genitori erano cubani ma nati quando l’isola faceva ancora parte del regno spagnolo. Spagna sempre: El Cid, Doña Sol, la Reina Isabel – meno Don Fernando d’Aragona. L’indipendenza era arrivata nel 1902, l’anno stesso in cui mio padre nacque: un’impresa supportata dagli Stati Uniti, ma nessun buon cubano amò mai quel paese. Non piacque mai ad alcuno della mia famiglia («conozco las entrañas del monstruo», come aveva scritto José Martí).

Io sarei dovuto comunque andare a Nord per imparare l’inglese così come era stato di norma per mio padre e mio zio, ma non con «los americanos», meglio in Canada dove «son más ingleses y menos yanquis». Mio padre mi accompagnò: prima a New York – perché voleva che io vedessi il Metropolitan Museum e la Frick Collection –, poi ad Ottawa da dove ritornai nel 1950 parlando un inglese sufficiente. Ma rimasi solo un mese a Santiago e ripartii quasi subito per La Havana: altra scuola bilingue. Carlos, mio padre, morì poco dopo, compiuti appena i cinquant’anni. Era stato Ministro della Cultura con Batista e non mi sono mai spiegato perché avesse accettato quell’incarico da un dittatore che aveva sempre detestato.

Jorge Mañach, grande saggista dell’epoca e intimo amico di mio padre, mi disse e poi scrisse pubblicamente che mio padre lo aveva fatto perché sapeva di essere vicino alla fine e voleva fare qualcosa di utile alla cultura del paese. Nel breve arco di sei mesi fece in modo di far pubblicare una ventina di volumi importanti come le Obras Completas de José Martí, la Antología de la Poesía Cubana di Cintio Vitier, due libri di Fernando Ortiz, e sovvenzionò la più famosa rivista letteraria ispano-americana dell’epoca, «Orígenes», diretta da José Lezama Lima, sulla quale io iniziai a scrivere. Volevo essere un poeta ma non ne possedevo il talento e pian piano mi diedi per vinto ma non prima di aver completato un libretto di versi, fortunatamente rimasto inedito.

González-Palacios ragazzino nel patio della calle Santa Lucía, a Santiago de Cuba, 1947

Iniziai l’università nel 1954. L’anno successivo partii per l’Europa con mia madre e mia sorella e trascorremmo lunghi mesi fra Italia, Spagna e Francia. Molto di quel tempo lo passammo a Firenze con l’idea di andare a risiedere a Roma (cosa che non accadde e io venni a vivere in questa città solo nel 1971). Tornai a Cuba fra il 1956 e il 1957 ma non riuscivo più a vivere in quell’isola dove stava iniziando la rivoluzione castrista. Il 5 settembre me ne andai da Cuba e non ci sono più tornato.

Durante il mio soggiorno in Spagna avevo conosciuto bene il poeta Vicente Aleixandre che mi aveva detto perentoriamente «Vivi di più, scrivi meno». Seguii il consiglio. A Firenze, dove mi stabilii, continuai l’università seguendo i corsi di storia dell’arte di Roberto Longhi. Divenne la mia strada e nel bene e nel male, in più di mezzo secolo, ho scritto una trentina di libri su questo argomento. Forse non era la mia vera vocazione ma confesso di aver amato molto questo mio mestiere.

L’ostacolo maggiore però era la lingua: dovevo necessariamente cambiarla. I miei vecchi amici perdettero forse un poeta inutile e io allora credetti di aver perso una battaglia, tragica più che triste. A volte ci si sposa non tanto per interesse quanto per senso comune, non certo per amore. Non mi sono pentito ma da sempre soffro di nostalgia, non di pentimento, sentendomi perso in una selva oscura.
La lingua italiana è meravigliosa e mi ha posseduto: «vivo sin vivir en mi» ma non ho motivo di aggiungere che «muero porque no muero». Da ragazzo pensavo di diventare cittadino del mondo, oggi, da vecchio, trovo ridicola quella mia pretesa. Amo l’Italia e ci vivo felicemente ma non posso negare che buona parte del mio sangue e del mio spirito restino spagnoli.

Di una cosa sono certo: non si può essere un buono storico dell’arte senza saper scrivere bene. Bisogna saper inventare un idioma particolare per riuscire a spiegare un quadro, una scultura, un oggetto. Questa lingua può essere semplice o complicata ma deve comunque essere personale e capace di descrivere un’opera così come appare fisicamente ma anche sentimentalmente, l’orma che lascia nella mente e nel cuore.
Juan Ramón Jiménez scrive: «¡Intelijencia!, dame/ el nombre exacto de las cosas!/ …Que mi palabra sea/ la cosa misma…»

I fatti quotidiani, le date, le circostanze politiche influenzano le nostre idee ma abbiamo il dovere di spiegare ciò che sentiamo, l’aspetto poetico di ciò che ci succede contemplando, guardando con gli occhi e con il cuore. L’ho imparato nei lunghi anni in cui ho cercato di comprendere la singolarità del paese in cui vivo e questo forse è la cosa migliore che l’Italia mi ha dato: insegnarmi a vedere. So più parole in spagnolo ma l’italiano mi ha fatto conoscere la pazienza e forse anche l’umiltà.

Perché scrivo tutto ciò? Non sono sicuro di essere sicuro e mentre continuo a vivere continuo a cambiare. Un disegno di Goya raffigura un vecchio con una lunga barba bianca, ai piedi una scritta che vorrei avere anche io: aún aprendo, imparo ancora.

Potrò continuare a camminare senza cadere esausto in questa infinita via lattea che ci porta da una parte all’altra per restare sempre noi stessi. Così, sto bene dove sto bene o, per essere più sincero, quasi sempre male e mai del tutto bene né del tutto male. Non si vive in un paese per tanti anni, come io ho vissuto in Italia, senza credersi di quel paese, ma è una situazione complessa sulla quale ho cambiato più volte idea. Per alcuni anni ho pensato di non saper bene chi io fossi: italiano seppure sognavo e continuo spesso a sognare in spagnolo. Ma quando sono in Francia, dove ho vissuto a lungo, o in Inghilterra dove sono andato decine di volte, di notte cambio idioma.

La sola casa che non ho mai abbandonato è la poesia spagnola, l’infanzia. Nel 1962 mi dovetti trasferire per lavoro a Milano per sopravvivere economicamente. Nel mio ufficio alla Feltrinelli c’erano i settantuno volumi della Biblioteca de autores españoles de Rivadeneyra: visto che ero il solo a consultarli, lo stesso Gian Giacomo Feltrinelli me li regalò e da allora sono i miei migliori compagni.

Quando mi sento molto bene o molto male riprendo la mia inclinazione naturale per la poesia nella mia lingua. Sembra difficile ammettere che per molto tempo ho dovuto dimenticarla e quando mi giungeva all’orecchio mi sembrava di ricevere una coltellata. Allontanarmi da Cuba è stato più facile dello smettere di scrivere in spagnolo. Era fatale, o imparavo a scrivere l’italiano o avrei dovuto andarmene.

In quei tempi, senza passaporto o altri documenti (sans papiers), avrei potuto vivere solo in pochi paesi. Era il mio destino, e sarebbe potuto essere peggiore. Vivo a Roma da più di mezzo secolo.