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Poesia italiana, un sistema di stili mappato da Afribo

Poesia italiana, un sistema di stili mappato da AfriboDomenico Gnoli, "Sedia", 1969, New York, collezione privata

Critica letteraria In «Poesia italiana postrema» (Carocci), lo studioso del petrarchismo setaccia e cerca di ricomporre in un disegno le scritture in versi contemporanee dal 1970 a oggi: all’insegna dei confronti e dei legami linguistici

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 10 giugno 2018

Scriveva Montale, nella sua Intervista immaginaria, che «il linguaggio di un poeta è un linguaggio storicizzato, un rapporto. Vale in quanto si oppone o si differenzia da altri linguaggi». E aggiungeva: «Naturalmente il grande semenzaio d’ogni trovata poetica è nel campo della prosa». Anche se siamo solo a metà Novecento – l’Intervista è del ’46 – non c’è forse didascalia migliore di queste righe montaliane per accompagnare un’esplorazione come quella condotta sulla scrittura in versi contemporanea da Andrea Afribo, Poesia italiana postrema Dal 1970 a oggi (Carocci «Lingue e Letterature», pp. 222, € 23,00). Perché questo è un libro ricco proprio di confronti e legami linguistici, di fatti di stile indagati con l’obiettivo, scrive l’autore, di gettare «luce sui progetti generali e sulle idee che i poeti hanno della poesia, del sistema letterario, della vita e del mondo che abitano». O anche, dice Afribo strizzando un poco l’occhio a Benjamin, di «ricomporre l’infranto».
Cos’è che è andato in pezzi?
Ma che cos’è che è andato in pezzi? Sostiene la vulgata che è saltata per aria – diciamolo alla buona – la possibilità stessa di disegnare un panorama della nostra poesia più recente, di rintracciare delle linee di continuità e dei valori sicuri, mentre certa critica impegnata riflette intanto sulla propria (ormai ovvia?) perdita di prestigio. Eppure una parola-chiave di questo volume è «mappa» (vedi l’intenzione esplicita di approntare appunto una «mappa storico-critica della poesia italiana degli ultimi decenni»). Del resto Afribo i ferri del mestiere li ha testati percorrendo in lungo e in largo, altrove, il più importante codice culturale della tradizione italiana, il petrarchismo. E anche fra queste pagine – pur in tutt’altro registro, e certo non in maniera altrettanto programmatica – si intravede un’ottica da ricostruzione ampia, che guarda di sbieco a un’intera «civiltà letteraria», non solo a singoli casi eccellenti. Questa prospettiva è molto chiara anzitutto nella prima parte del lavoro, quella in cui il compasso dell’indagine è più largo: un impegnativo capitolo (Aspetti e tendenze della poesia italiana dal 1970 a oggi) che insegue una sorta di breve storia della poesia contemporanea, che non dimentica i grandi «classici» – il Montale di Satura, o Pasolini – ma che, d’altra parte, arriva fino ai nomi che più contano per i destini recenti della nostra lirica, per esempio alla triade formata da Viviani, Cucchi e De Angelis.
E tuttavia non ci si limita, qui, alla pur utile ricomposizione di un elenco, insomma alla storiografia costruita magari a partire da una «poetica», o dalla ridiscussione di un certo valore all’interno del «canone». Fra liste e posizioni individuali sembrano emergere soprattutto alcuni nodi trasversali. Un esempio su tutti: l’attitudine all’ossimoro che mostrano il Montale saturesco già richiamato, o Zanzotto, non sono che emblemi primari di una generale «tendenza in atto» in quel giro d’anni, «che unisce i più diversi» fra loro, da Caproni a Porta a Risi. Significativo che lo spunto fiorisca poi in un altro capitolo a sé stante, l’ultimo del volume, dedicato alla presenza del nonsense nella poesia tardonovecentesca (sobriamente rinominato «variazione», ma in fondo coerente ed elegante chiusa circolare del libro). In principio, dunque, stanno retorica e stile (con l’ossimoro, mettiamo, ecco uno stilema come l’elenco caotico, e certe costanti sintattiche, ecc.). Ma l’analisi può affidarsi anche a una bussola di cui, forse, si pensava di poter fare a meno per una lirica ormai sempre più a contatto, o persino in competizione, con la prosa: la metrica. E non solo, com’è scontato, per i versi della Valduga, o di Frasca, di tutta l’ondata cosiddetta neometrica dagli anni ottanta in poi; ma anche per scritture nelle quali, anzi, il flusso discorsivo sembrerebbe intimamente legato all’assenza di una stretta gabbia formale. Il caso più interessante, da questo punto di vista, sembra essere Fabio Pusterla, quello di Argéman (2014), disponibile a riattare originalmente il sonetto, o la quartina, o persino a lasciar intravedere i lineamenti del madrigale antico e della ballata. Come a dire, insomma, che la poesia più convincente – anche quella cordiale e «immediata» – non rinuncia mai del tutto a organizzarsi in forma.
Benzoni e la fortuna di Sereni
C’è comunque molto spazio, in questa ricognizione, per alcuni zoom notevoli quanto ravvicinati. Vicino a «mappa», o a «forma», metteremo un altro termine irrinunciabile e già richiamato sopra: tradizione. Così il saggio dedicato a un poeta come Ferruccio Benzoni è anche un capitolo della fortuna di Vittorio Sereni (ma è un Sereni, quello sfruttato da Benzoni, tutto diverso da quello di Raboni, o dello stesso Pusterla). E poi ci sono altri due poeti che sono al centro delle attenzioni anche «genealogiche» di Afribo, cioè Milo De Angelis e Umberto Fiori (certamente la varietà è una delle qualità cardinali del libro e del suo autore, disponibile ad attraversare con la stessa efficacia campioni anche molto lontani fra loro). Di Fiori si ricostruiscono certe ascendenze o tangenze tematiche con la lezione montaliana e quella lombarda, ma facendone emergere tutta la (splendida) eccentricità. Quanto a De Angelis, le pagine a lui consacrate – forse le più belle del libro – dicono una volta di più del suo ruolo centrale e della sua tenuta nella poesia di questi ultimi decenni.
Non può non piacere, infine, la libertà con cui Afribo sa anche giudicare, o addirittura – con discrezione, si capisce – dire i propri amori: per la «notevole originalità» di Fiori, o per il modo in cui si insinuano nella memoria certe marche stilistiche inconfondibili del «grande» De Angelis; oppure, ancora, per i saggi – «bellissimi» – di Raboni su Zanzotto (è il Raboni di Poesia degli anni Sessanta: una miniera critica oggetto di un altro saggio, che qui dentro fa quasi da figura en abyme del libro stesso). Il che ci ricorda, allora, che nell’armamentario del critico, fra strumenti affilati e capacità di distinguere, ce n’è un altro che fa la differenza: l’antica passione di lettore.

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