Settimo titolo della preziosa collana I Sulphurèi de ‘Il Laboratorio’ di Nola, intendo dar conto di Poemetto della luna ubriaca di Tommaso Di Francesco. Ne trascrivo il colophon: «Dieci poesie di Tommaso Di Francesco e sei acqueforti di Aniello Scotto compongono questa edizione realizzata in trenta esemplari firmati e numerati.

Le acqueforti sono state tirate da Cinzia De Matteo con i torchi a stella de Il Laboratorio di Nola su carta Magnani Pescia. I testi sono stati composti in carattere Caslon e stampati da Grafica Montese nel mese di ottobre 2019». Alle acqueforti di Aniello Scotto dedicherò una prossima nota del Divano. Qui azzardo una parafrasi del Poemetto di Di Francesco col proposito di segnalarne uno degli attendibili costrutti di senso. La parafrasi è inevitabile impoverimento della polisemia propria della parola poetica che va assunta nella sua integrità, che non è trascrivibile e non è traducibile. Ma nella parafrasi può stare l’esca della valutazione critica. Così indico una tematica che, con qualche ragionevole approssimazione, ho creduto si evinca da Poemetto della luna ubriaca, un testo scabro e corrusco, scavato e lustro, patinato e irto ovvero ricco di intime polarità in tensione, vuoi per accostamento di vocaboli e vuoi per legami sintattici, ora piani, ora forzosi e tali, sempre, da accendersi in improvvise arsioni.

Parafraso, dunque. E dico di un riverbero di luce che non illumina con sufficiente chiarezza i passi di chi ha smarrito la via. Risulta anzi ingannevole quel barbaglio. Invita a imboccare un percorso che è presidiato da insidie ostili, da forze che potrebbero rivelarsi mortali. Quella luce concede tuttavia che in un incerto e sghembo chiarore un incontro avvenga. Un contatto dei corpi, una consistenza dei sensi che si ritrovi in uno scambio, fiati e sudori, che rapisce e travolge. Salta ogni equilibrio, si stempera in oscillazioni e capogiri il movimento dei riflessi della luna nell’oscurità. L’aver raggiunto una volta quell’astro con una prodezza fantastica, non esime noi qui, sulla terra, da una acuta, non prorogabile, «urgenza di sapere».

Conoscersi, l’antico compito prescritto all’uomo a Delfi. Quel recar luce dentro sé, che è fatica improba, mai pienamente risarcita. Perché conoscersi è entrare nell’ombra che ciascuno riflette, esplorare il ricetto ove stanno riposti scori interiori da recare in luce. Quei bui nascosti che continuamente tenti di illuminare, che solo per un momento sottoponi all’incerta, fredda luce lunare. Così, come in un rinterzo intermittente, «tu, l’una e l’altra, la gelida lassù e l’ombra/tua come nell’urlo d’una piccola morte,/cercate in tre nell’oscuro una promessa». Come non tutto si mostra netto allo sguardo in un lampo che s’accenda improvviso ed è già spento, così allo sguardo che rivolgi entro di te si presentano gli interrotti sentieri della memoria: «Battono strade tra abbracci mancati/e perturbante attesa del legame». E l’inclusione che ti immette negli ‘scrigni’ del «generale terrore/dei vivi umani» ha senso se solo consente un ritorno sui propri passi, gli stessi segnati come l’orma da calcare all’indietro, in intervalli fissi e inamovibili.

La luna campita alta nel cielo notturno è luogo di ricoveri clandestini, non mai legittimati. E nelle sue lande di polvere cogli il monito di immemoriali scomparse, il frantume inerte di vite trapassate: «sull’inutile luna il bene e poi il male/eguali al terrestre orario del disfare». E la dimensione terrestre, qui, dove le diseguaglianze sono ben stabili («non a ciascuno secondo possibilità») tanto che son confermate ed esibite nella loro inscalfibile immobilità dalla vitrea, ‘sconsolata’ luce lunare. «L’astro del simulacro siamo noi,/nostra la sbornia stretti sotto il cielo» e nell’effimero del contatto sensuale che si intreccia drammatico (si contorce?) nel riverbero ingannevole d’un raggio di luce lunare, salendo e calando si svolge un millenario andare, il nostro: «crescente, pianta sempiterno il seme/calante, estirpa la radice radicale».