Il premier spagnolo Mariano Rajoy, in visita ufficiale in Germania, si è presentato ieri a rapporto dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. Con un messaggio: «L’austerità ha dato i suoi frutti». Dopo anni di pesantissima regressione economica, in effetti, è previsto che il Pil iberico cresca più della media europea (3,1% nel secondo trimestre 2015). Ma altre cifre, che il leader conservatore ignora, raccontano di un paese dove la piaga della disoccupazione continua a fare male (oltre il 20%) e il rischio-povertà è una condizione vissuta da un’ampia fascia di popolazione (29%). I numeri che davvero interessano a Rajoy, in ogni caso, sono altri: quelli dei sondaggi che indicano una risalita del suo Partido popular (Pp).

Ieri è toccato al quotidiano online di sinistra Público registrare il trend: un’inchiesta di opinione, realizzata per conto del quotidiano, vede il Pp in testa con il 29,5% dei voti. A seguire, i socialisti del Psoe con il 22,4%, Podemos al 16,7% e i centristi (che guardano a destra) di Ciudadanos al 12,7%.

Molto staccata dalle quattro liste principali, Izquierda unida (Iu) con un magro 3,3%, che varrebbe comunque l’ingresso in parlamento con un paio di deputati. Si tratta di rapporti di forza sbilanciati a favore dei conservatori, che tuttavia non avrebbero i numeri per formare una maggioranza con Ciudadanos. L’unica opzione diversa da un fragile governo di minoranza sarebbe dunque una sorta di Grosse Koalition spagnola fra popolari di Rajoy e socialisti di Pedro Sánchez.

Uno scenario, quello della «grande coalizione», che eliminerebbe qualunque speranza in una possibile svolta anti-austerità in grado di aiutare un eventuale nuovo esecutivo di Alexis Tsipras ad Atene nel corpo-a-corpo con le istituzioni internazionali. Il Psoe grida ai quattro venti che non farà mai un’alleanza di governo con il Pp, ed è normale che sia così: sarebbe difficile, in caso contrario, mobilitare a proprio favore l’elettorato progressista. Eppure, qualche dubbio sulle reali intenzioni dei socialisti affiora. La vecchia guardia del partito, che ancora si riconosce nella leadership dell’ex premier Felipe González, non fa mistero di prediligere una soluzione del genere. E così l’influente quotidiano social-liberale El País. Dalle colonne del quale González si è rivolto ieri «ai catalani» con una lettera aperta in cui ha speso parole durissime contro l’indipendentismo guidato dal presidente del governo di Barcellona, Artur Mas.

La Catalogna andrà al voto fra quattro settimane in un clima di forte polarizzazione. Da una parte, la lista pro-secessione Junts pel Sí («Uniti per il sì», in catalano), politicamente trasversale: raggruppa il partito di centro-destra nazionalista del governatore Mas (Cdc), su cui la magistratura indaga per finanziamenti illeciti, e la sinistra repubblicana di Erc.

Dall’altra, Catalunya Sí que es Pot (che richiama il grido «sí se puede» degli indignados), il raggruppamento di Podemos e di tutte le sinistre, compresa Iu. Fuori dai due schieramenti principali, tutti gli altri: Psoe, Pp, Ciudadanos e gli indipendentisti di sinistra radicale della Cup. Questi ultimi, troppo di sinistra per stare con il minestrone di Mas, ma troppo indipendentisti per unirsi a Podemos, secondo alcuni analisti potrebbero rivelarsi l’ago della bilancia.

In chiave nazionale (al voto si andrà a fine novembre o inizio dicembre), il richiamo all’«unità della Spagna» di fronte al rischio di indipendenza di Barcellona porta acqua al mulino di tutti quelli che a Madrid vogliono la «grande coalizione» fra Pp e Psoe. La drammatizzazione della questione catalana rischia di rivelarsi funzionale a un disegno di conservazione, con buona pace delle speranze coltivate da milioni di cittadini che hanno lottato contro l’austerità della destra.