L’indipendenza della Catalogna? «Se ciascuno farà il proprio dovere, non servirà alcun intervento dell’esercito». L’affermazione del ministro spagnolo della difesa, Pedro Morenés, è una di quelle rassicurazioni che non servono a tranquillizzare.

Al contrario: inquietano. In un’intervista alla radio pubblica Rne, l’esponente del Partido popular ha risposto così a una domanda circa il possibile ruolo delle forze armate nel conflitto politico che contrappone il governo di Barcellona a quello di Madrid. Un interrogativo che si comprende meglio se si tiene presente quanto stabilisce la Costituzione iberica all’articolo 8: l’esercito «ha come missione garantire la sovranità e l’indipendenza della Spagna, difendere la sua integrità territoriale e l’ordinamento costituzionale».

Un precetto figlio della transizione concordata fra regime franchista e forze democratiche, e che porta il segno del potere di condizionamento che i militari, alla morte del dittatore, ancora conservavano.

Furono i 14 anni di governo del socialista Felipe González (1982-1996) a bonificare parzialmente le forze armate, la cui avversione alla democrazia era emersa nel 1981 con il famoso tentativo di golpe del colonnello Tejero. Ma i residui di franchismo non sono mai del tutto scomparsi: nel 2006 il tenente generale José Mena Aguado, il numero due nella gerarchia dell’esercito, fu rimosso dal ruolo per avere pubblicamente auspicato un intervento militare a tutela dell’integrità dello stato.

Nel mirino, allora, c’era il nuovo Statuto di autonomia della Catalogna in corso di elaborazione, che prevedeva più competenze per la regione di Barcellona, non certo l’indipendenza. Se tanto bastò a «innervosire» alcuni vertici militari, c’è da credere che l’esplicito disegno secessionista del governatore catalano Artur Mas stia rendendo gli ambienti militari madrileni ancora più turbolenti.

I sondaggi staranno sicuramente contribuendo a far crescere la tensione in vista del 27 settembre, giorno di elezioni che si preannunciano come una sorta di «plebiscito» pro o contro la secessione dal resto della Spagna.

Secondo gli ultimi rilevamenti, pubblicati domenica dal quotidiano catalano El Periódico, le due liste indipendentiste sono a un passo dalla maggioranza assoluta nel parlamento di Barcellona, pari a 68 seggi: l’aggregazione trasversale Junts pel Sí (che raggruppa il centrodestra di Mas e la sinistra repubblicana) oscillerebbe fra 60 e 62 deputati, e la sinistra radicale della Cup ne otterrebbe 7-8.

Numeri ai quali non corrisponde, tuttavia, una maggioranza assoluta nel voto popolare: Junts pel Sí è data al 38,8%, mentre la Cup al 6%. Terza forza sono i centristi di Ciudadanos (da 25 a 27 seggi), seguiti da Catalunya Sí que es Pot, la lista che raggruppa Podemos, Izquierda unida e altri movimenti di sinistra (da 15 a 17).

I meno votati sarebbero socialisti e popolari, rispettivamente quinta e sesta forza. Se l’esito delle urne, tra meno di venti giorni, rispecchierà le inchieste di opinione, sarà molto importante la scelta della Cup, la sinistra radicale indipendentista: unirsi alla compagine del governatore Mas in una coalizione di governo «anti-Madrid», oppure restare all’opposizione.

E presto sarà tempo di decisioni definitive anche per Podemos e Izquierda unida (Iu) sulla creazione di liste comuni per le politiche di dicembre. Il movimento di Pablo Iglesias (che ha appena «ingaggiato» l’economista Thomas Piketty come consulente) sta cambiando orientamento: da un’iniziale «no» all’intesa con Iu si è passati all’apertura di sempre maggiori spiragli, a cui corrisponde la piena determinazione a trovare un’intesa da parte di Alberto Garzón, giovane leader di Iu.

Un cambio di strategia, quello di Podemos, dovuto sia a forti pressioni che vengono da settori affini (come il movimento dei sindaci), sia ai sondaggi meno incoraggianti di qualche mese fa.