Con l’avvicinarsi della data delle elezioni, i partiti politici spagnoli hanno iniziato la tradizionale campagna acquisti. Questa settimana è stato il turno di Pablo Iglesias. Nonostante il partito teoricamente dovrebbe prendere le decisioni con il meccanismo delle primarie, Iglesias ha fatto un annuncio col botto: l’ex capo di stato maggiore per il governo socialista, José Julio Ródriguez, a un passo dalla pensione (con l’arrivo della quale può svincolarsi dell’obbligo alla neutralità) correrà con Podemos a Saragozza. Non solo.

Iglesias non ha avuto dubbi nell’affermare che il militare, noto per le sue posizioni anticonformiste, sarebbe diventato il suo ministro della Difesa. In Spagna dall’avvento della democrazia a capo del ministero della Difesa c’è sempre stato un civile. Apriti cielo. Il governo ha reagito con isteria, addirittura annunciando nella conferenza stampa dopo il Cdm di venerdì che l’avrebbe «sospeso» dai suoi incarichi – di fatto ormai solo la presenza in un organismo di rappresentanza – e che aveva «perso la fiducia» nei suoi confronti. Da parte sua, il militare esegue gli ordini della scuderia viola con diligenza. Riguardo al suo essere «antisistema», la risposta più politicamente corretta: «se per antisistema si intende uno che non crede che per uscire da una crisi economica si debba farlo aumentando la disuguaglianza, i tagli in educazione e sanità, ebbene sì, mi considero un antisistema».

Nel frattempo, stando ai sondaggi dell’agenzia Metroscopia, pubblicati domenica scorsa sul País, quattro partiti sgomitano in un fazzoletto di sei punti. In testa il Pp con il 23,5% delle intenzioni di voto, seguito da Ciudadanos a un solo punto di distanza; poi i socialisti, con il 21%, e, in coda, Podemos con il 17. A Izquierda unida, le briciole: il 6% circa. Ovviamente sono numeri che vanno presi con le pinze, tanto più in un periodo di transizione politica, in cui, per ammissione della stessa Metroscopia «gli spagnoli tendono a posticipare il più possibile la decisione di voto».

Tutto può cambiare, e probabilmente, da qui a 50 giorni, molto cambierà, anche se la foto di gruppo, ha una sua utilità nell’evidenziare delle tendenze incontestabili e determinanti.

In primo luogo, la caduta di Podemos, che in meno di nove mesi ha perso circa 10 punti (anche se risulta in ripresa nell’ultimo trimestre). Questione (anche) di tempistica: una rincorsa iniziata subito a tutta velocità ha fiaccato le energie del partito viola proprio nel momento in cui più servirebbero. L’effetto novità è andato scemando e tra l’elettorato potenziale si è creata una sorta di assuefazione all’iconoclastia di Podemos che non giova ai fini elettorali. Ma il partito viola paga soprattutto il gesto di superbia che ha sbarrato le porte a un’intesa con Izquierda unida. Ne sarebbe nata una coalizione di sinistra radicale con concrete possibilità di vittoria, che la base avrebbe certamente applaudito.

Un’occasione storica sprecata, che sta già incidendo sulla parabola partito. Ciudadanos, da parte sua, ringrazia sentitamente: gli arancioni (da 10 anni attivi in ambito catalano e da uno sulla ribalta nazionale), sono l’altro volto del cambiamento. Un cambiamento molto più «disciplinato» che piace alle banche e ai mercati, che ha – a parole – nel mirino la casta (anche e su molte posizioni coincide con il Pp), ma proporne un programma economico conservatore, liberista, e nella linea degli interessi del capitale.

L’esodo verso Ciudadanos è quasi biblico: 5% di potenziali elettori ad agosto, un 7 a settembre, e un 11 il mese scorso, secondo i dati del País. Per non parlare delle migrazioni a sinistra, che ingrossano le fila di Podemos. Discorso a parte per il Pp, che non può che battersi il petto e recitare un polifonico mea culpa: le politiche di austerità, la chiusura e l’inettitudine sulla spinosa questione catalana, e soprattutto i reiterati, colossali, scandali di corruzione, presentano inevitabilmente un conto salato.

Basti dire che il partito di governo ha dilapidato in quattro anni la metà dei consensi, passando dal 44% con cui vinse le generali del 2011, a meno del 25%. Pur così, il sistema elettorale spagnolo è disegnato per favorire i grandi partiti, maggiormente radicati sul territorio. Se i risultati elettorali dovessero avvicinarsi alle stime, sui 350 seggi del parlamento, il Pp ne otterrebbe un centinaio (contro i 186 attuali), il Psoe circa novanta, Ciudadanos un’ottantina, e Podemos meno di 50.