Nelle sue note biografiche Rebecca Solnit si descrive come «scrittrice, storica e attivista, autrice di venti libri su femminismo, storia occidentale e indigena, potere popolare, cambiamento sociale e insurrezione, vagabondare e camminare, speranza e disastro». Una definizione per difetto che omette i premi ricevuti e l’eco internazionale per Gli uomini mi spiegano le cose. Riflessioni sulla sopraffazione maschile, edito negli Usa da Haymarket nel 2015 e due anni dopo da noi per Ponte alle Grazie.
Ha suscitato quindi sorpresa il titolo del suo ultimo libro, il memoir Recollections of My Nonexistence («Ricordi della mia nonesistenza»), pubblicato di recente da Penguin Random House e in uscita a marzo 2021 in Italia di nuovo per Ponte alle Grazie. Se ne stupisce pure Meredith Maran, che intervista la scrittrice per la «Los Angeles Review of Books» (One Voice in a Great Chorus. An Interview with Rebecca Solnit) senza nascondere la venerazione che prova per lei.
Da dove viene dunque questa imprevedibile «nonesistenza»? «Nel mio libro – spiega Solnit – volevo veicolare l’esperienza di cancellazione che fa abitualmente parte della vita delle donne: le cose che ti insegnano a non fare e a non dire, i vestiti che non devi indossare, le aspirazioni che non devi avere se vuoi sopravvivere, i modi in cui ti dicono che ti devi cancellare per non essere cancellata violentemente da qualcun altro».
Certo Solnit ammette che, in quanto autrice di successo, il suo percorso è stato più fortunato rispetto a quello di tante altre donne. Tuttavia, «quelle esperienze mi hanno insegnato che molte persone non volevano che questo mondo fosse il mio mondo, non volevano che io – e altre come me – potessimo viverlo in libertà, sicurezza, piena partecipazione».
Degli stereotipi che incatenano l’esistenza di molte donne scrive anche una giovane saggista australiana, Ellena Savage, su «Psyche», neonata costola della rivista «Aeon», tutta dedicata alla «condizione umana». Diverso però il punto di partenza, e pure quello di arrivo. In Selfish, grumpy and unkind? That’s my kind of woman («Egoista, scorbutica e sgarbata? Ecco il mio tipo di donna»), Savage, di cui è appena uscita in Australia la prima raccolta di saggi, Blueberries, lamenta la scarsità di eroine antipatiche nella narrativa contemporanea: «Non ne posso più di speranze, grandi risultati, donne eccellenti. Sono stanca di esempi positivi. Più interessanti per me sono i personaggi che riflettono quanto siamo orribili, disastrate, esaurite».
Per sua fortuna Savage si è da poco imbattuta in una figura che fa al caso suo: Alma, protagonista di un libro, Et norsk hus, in inglese A House in Norway, non ancora tradotto in italiano. L’autrice, la norvegese Vigdis Hjorth (di cui è appena uscito per Fazi un romanzo successivo, Eredità), descrive «una donna i cui grandi difetti non derivano da un trauma, dalla madre o dai figli, che non reagisce alla povertà, al tradimento o alla prevaricazione maschile o a un potenziale artistico non coltivato». No, le colpe di Alma «si riconducono ai normali squilibri di tante persone che vivono in società ingiuste, bellamente brutali».
Ma Savage non si limita a esaltare questa antieroina e si chiede cosa susciti la sua insofferenza per molti personaggi femminili contemporanei: «Credo abbia a che fare con il modo in cui l’attuale politica dell’identità tende ad appiattire e a omogeneizzare… Una narrazione che esclude la realtà delle donne capaci di violenza, cupidigia, autoinganno, irresponsabilità. Cosa accade quando le donne, corrette per definizione, si comportano in modo incivile? Che risposta ci diamo?».