Un po’ di fondi per i comuni che rischiano il dissesto finanziario il governo li ha trovati, nel decreto sostegni-bis che andrà domani in Consiglio dei ministri ci sono misure per 1,4 miliardi. Dovrebbero garantire almeno l’illuminazione pubblica e fermare (o limitare) il taglio delle classi negli asili nido. Ma sono fondi ancora troppo scarsi, perché i comuni sull’orlo del precipizio sono quasi 1.400. Moltissimi sono piccoli comuni, ma solo Napoli avrebbe bisogno del doppio dell’intera cifra stanziata. Il debito del capoluogo campano ha raggiunto infatti la vetta di 2,7 miliardi e per questo l’ex ministro Manfredi per accettare di candidarsi a sindaco aveva messo come condizione che il debito fosse stralciato. Quando ha capito che così non sarebbe stato ha reso il pubblico il suo «allora no».

E così i mesi che precedono la presentazione delle candidature per le prossime amministrative stanno diventando ogni giorno di più una fuga dalle città. A destra come nel centrosinistra. L’elenco è lunghissimo, Manfredi è solo l’ultimo. Prima di lui hanno detto no anche Zingaretti, Meloni, Bertolaso, Appendino, Salizzoni, Albertini, Fico…

Nessuno ha voglia di prendersi in carico i bilanci disastrati non tanto e non solo dalla crisi economica (aggravata esponenzialmente dalla pandemia) ma da anni di tagli nei trasferimenti dello stato agli enti locali. C’è la certezza, con le casse vuote, di non poter imprimere nessuna svolta nella gestione dei servizi pubblici comunali e dunque di deludere immediatamente le aspettative dei cittadini. E ci sono i rischi legali, tra i quali l’eventualità che la Corte dei Conti individui una responsabilità del nuovo primo cittadino nell’aggravarsi della situazione economica, anche in primo grado. Farebbe immediatamente scattare la tagliola sulle ambizioni di carriera politica.

Il fatto che le prossime saranno elezioni amministrative rinviate di tre/quattro mesi rende ancora più desolante il vuoto di candidature, visto che i partiti hanno avuto più tempo per le loro scelte. E viene il dubbio che la decisione di spostare a settembre-ottobre le elezioni cittadine sia stata funzionale ai tormenti delle coalizioni e non alla lotta alla pandemia. Già oggi le preoccupazioni per la diffusione del virus sono infatti assai ridimensionate e a maggior ragione lo saranno a metà giugno, ultima data in cui sarebbe stato possibile convocare elezioni “regolari”.

Nel disastro non manca il tocco patetico dei leader di partito convinti, malgrado tutto, di poter alla fine far cambiare idea ai riluttanti con un personale, accorato ultimo appello. Ma non convincono più nessuno.