«Abbiamo sentito le raffiche, abbiamo spento le luci e ci siamo barricati dentro casa», spiega Ahmed, un pensionato che abita a Boulevard Lenoir, a pochi metri dal teatro Bataclan. «Sentivamo ragazzi gridare ’Scappiamo, scappiamo! Questi ci uccidono!’», aggiunge. Di fronte al suo palazzo, transenne e furgoni della polizia sbarrano l’accesso alla sala concerti. Ahmed indica i mazzi di fiori e i biglietti lasciati dai passanti. «La grande sorpresa è arrivata stamattina. Non mi sarei mai aspettato di trovare dei morti all’entrata del palazzo».

Nulla è cambiato da quando la polizia ha lanciato l’assedio allo stabile, alle due di venerdì notte. Il pullman nero degli Eagles of Death Metal, il gruppo che suonava al momento dell’attacco, è ancora parcheggiato davanti al locale. Un lungo telo grigio nasconde i corpi ammassati all’interno del Bataclan. La folla è muta. La presenza dei media internazionali è massiccia. Il pensionato che ha assistito all’attacco punta il dito contro lo stato e contro la mancanza di misure di sicurezza adeguate. «Se i responsabili degli attentati sono già noti, come ha detto il presidente Hollande, perché non li arrestano? Perché ci lasciano vivere nel terrore?», si chiede.

Uno dei biglietti lasciati dai passanti dice: «Le vostre guerre, i nostri morti. Solidarietà ai migranti». «Dicono che un attentatore dello stadio avesse un passaporto siriano» ci spiega Rémy, studente universitario che abita nel quartiere. «Non bisogna farsi intimorire. Dobbiamo colpire il nemico ora, qualunque esso sia», aggiunge. Ma la sua rabbia non è condivisa dal resto della folla. È l’impotenza il sentimento più diffuso fra chi è venuto al Bataclan in questa grigia mattina di sabato 13 novembre, una data che da oggi nessuno potrà dimenticare.

«Dopo Charlie Hebdo nove mesi fa, la polizia ha moltiplicato i controlli nei luoghi pubblici. Dopo l’attentato sventato ad agosto (sul treno Amsterdam-Parigi, ndr), hanno alzato il livello di sicurezza sui treni. Ed ecco il risultato. Ora sappiamo con certezza di essere all’oscuro di ciò che accade in Francia», dice Leontine, un’impiegata delle gallerie Lafayette. «C’è troppa libertà, soprattutto di circolazione. Io al lavoro vengo perquisita all’entrata e all’uscita. Lo faccio volentieri. Dobbiamo rinunciare ad alcune delle nostre libertà. Bisogna che ognuno faccia il suo». Lo stato di emergenza proclamato nella notte di venerdì viene percepita come una misura necessaria ma inefficace rispetto alle cause profonde di questi attacchi. La polizia ha confermato che uno degli attentatori del Bataclan è un francese già noto ai Servizi segreti. «Non mi stupirebbe se questi terroristi fossero come i fratelli Kouachi (autori dell’attentato a Charlie Hebdo, ndr): giovani emarginati dei quartieri più poveri», dice Clemence, venuta al Bataclan per vedere più chiaro in questa brutta storia. Dieci anni fa, centinaia di abitanti delle banlieue si sono ribellati agli abusi della polizia francese. Hanno alzato barricate e portato la guerra per le strade di Parigi. La discriminazione è spietata in Francia: dipende dal colore della pelle, dal quartiere dove vivi, dal lavoro che fai. «Sono giovani provenienti da famiglie povere, di origine nord-africana. Vivono in periferia e sono sistematicamente sottoposti agli abusi delle forze di polizia», aggiunge. E’ anche qui che può pescare lo Stato Islamico.

Maurice, 52 anni, invece ha le lacrime agli occhi. «Ero giovane quando il commando di al-Fatah fece sei morti e 22 feriti a rue des Rosiers nel Marais (quartiere ebraico di Parigi, ndr). Era il 1982, me lo ricordo benissimo». Maurice è ateo ma viene da una famiglia di ebrei praticanti: «Hanno attaccato il Bataclan perché è di proprietà di un ebreo e metà della sua famiglia vive in Israele». Per Maurice, gli attacchi non hanno nulla a che fare con la religione e i terroristi sono solo dei folli. «Quando attaccavano i musulmani nel Marais, io li ho sempre difesi. Ma oggi avete visto dei musulmani scendere in piazza e condannare gli attentati? Qualcuno li ha visti?», accusa. «Per me c’è un unico elemento di novità», è certo Laurent, un signore sulla cinquantina che s’infila il casco e sale sulla moto. «Dopo la carneficina di Charlie Hebdo era chiara una cosa: se ti esponi troppo finisci sotto tiro. Ora invece hanno cominciato a sparare nei bar e nei ristoranti. Ora nessuno di noi è più al sicuro».