Non è stata una giuria «sorprendente» quella guidata da Guillermo del Toro, dal cui sguardo fantastico sul mondo ci si sarebbe aspettata una maggiore eccentricità, o il gusto di scommettere su film meno consensuali, come Vox Lux di Brady Corbet o Suspiria di Luca Guadagnino, entrambi sorretti da magnifiche attrici col piacere del rischio, nel primo Natalie Portman e nel secondo la coppia sulfurea Tilda Swinton/Dakota Johnson. O ancora Capri-Revolution di Mario Martone, cinema italiano di raffinatezza eccentrica come di rado accade di vedere nei grandi festival. Poi, certo, attori come Willem Dafoe sono magnifici e la sua Coppa premia un’interpretazione che contro i tentativi di Schnabel e del suo At Eternity’s Gate di affossarlo imitandone le pennellate, resuscita Van Gogh nei campi assolati e dentro ai suoi colori.

Il resto se si eccettua il Leone d’oro al magnifico Roma di Cuaron, annunciatissimo sin dalla prima proiezione, premia un cinema «ordinario», persino tronfio, che poco interroga la propria sostanza, lontano da qualsiasi sentimento di contemporaneità.
La linea di questo palmarès è apparsa chiara sin dalle prime battute, con il premio speciale a The Nightingale e al suo protagonista, Baykali Ganambarr, come attore emergente – perché non la protagonista di Cuaron, meravigliosa Cleo, Yalitzia Aparicio? Un risarcimento per gli insulti alla regista, l’australiana Jennifer Kent? O la risposta alle polemiche sollevate prima della Mostra sull’assenza di registe in concorso con la sola eccezione di Kent. Quale che sia la ragione non funziona semplicemente perché The Nighntingale è un film forse tra i peggiori visti alla Mostra, anche assai ambiguo nel suo modo di affrontare la questione del colonialismo e dei suoi massacri tra stupri e teste di neonati spiaccicate al muro e pulsioni vendicative che finiscono per imporsi sulla materia trattata.

E il premio non rimuove certo le questioni sollevate, l’essere in minoranza come registe – o gli insulti, quasi sempre riservati alle donne – apparendo piuttosto come una specie di contentino da buona coscienza persino un po’ irritante.
Eccoci dunque ai due premi a The Favourite di Lanthimos, ex (ma lo è mai stato?) sguardo di inquietudini ai tempi dei suoi film greci: Gran Premio e attrice a Olivia Colman, regina Anna capricciosa e fragile, per la sua farsa del potere in costume che vuole essere fuori dal tempo a centralità femminile, la sovrana e le sue favorite, scritto da Deborah Davis insieme a Tony McNamara, che si lascia passare accanto le potenzialità della materia, troppo impegnato a guardarsi filmare per dare alle sue protagoniste una luce che non sia quello dello stereotipo femminile più abusato.

Tronfio è anche il cinema di Jacques Audiard miglior regia per il suo irritante western (The Sister Brothers) «ironica» (almeno così vorrebbe) rivisitazione del genere in chiave «Home Sweet Home» (specie se da mammà) un po’ buddy movie un po’ spaghetti western con quel tocco «europeo» (meglio francese) di superiorità su un paesaggio e immaginario ripercorsi con la presunzione che supplisce alla mancanza di inventiva.
Roma dunque, dal nome di un quartiere oggi anche hipster di Città del Messico, lo produce Netflix e questo Leone sarà sicuramente oggetto di polemiche nel difficile equilibrio tra la sala e i colossi dello streaming – ma quanti sono i Leoni mai arrivati al cinema, ultimo il Lav Diaz del sublime The Woman Who Left.

La madeleine proustiana in bianco e nero – con ringraziamento commosso del regista alla sua «tata» che l’ha cresciuto e che è lo sguardo attraverso il quale ripercorre la sua infanzia e gli anni ’70 di Echevarria in Messico, il suo Paese – porta dentro a un mondo e a una Storia, con intelligenza e piacere del cinema, spostando lo sguardo ai margini, lungo l’orizzonte che si coglie dagli alloggi della servitù, unendo narrazione classica e tocchi eccentrici (come scegliere una protagonista non professionista). Salva il palmarès e ci ricorda che il cinema alla Mostra era – fuori dai premi – molto altro