A quattro anni esatti dalla firma dello storico accordo sul nucleare iraniano, ieri il suo principale architetto, il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif, ha annunciato il superamento da parte di Teheran del limite di 300 chili di scorte di uranio arricchito al 3,67%.

Cade uno dei requisiti dell’accordo, non per caso e non a sorpresa: l’Iran aveva lanciato il suo ultimatum di dieci giorni lo scorso 17 giugno – più diretto all’Europa che alla Casa bianca – e chiesto ai partner rimanenti del Jcpoa di muoversi per farlo rispettare. O per bypassare le sanzioni reintrodotte dall’amministrazione Trump dopo l’uscita statunitense dall’intesa di Obama.

L’Agenzia internazionale per l’energia atomica conferma: abbiamo verificato, Teheran ha superato il limite. Quei 300 kg che in termini bellici non significano nulla: l’Iran si era impegnato a restare nel limite dei 300 kg di uranio 235 arricchito al 3,67%, percentuale necessaria al funzionamento di impianti per il nucleare civile.

Per costruire una bomba (ammesso di avere a disposizione un modo per lanciarla) serve più di una tonnellata di uranio 235 arricchito al 90%. Teheran non è neppure vicina, ma i paletti erano stati comunque messi. E ora sono stati violati, chiara provocazione politica a tre giorni dal vertice di Vienna in cui l’Unione europea avrebbe dovuto rassicurare Teheran sul neonato sistema Instex, utile ad aggirare le sanzioni Usa tramite uno «scambio di beni» poco sensibili che non preveda giro di soldi tramite le banche iraniane colpite dalle sanzioni. Ma per essere efficace, ha ribattuto il vice ministro degli esteri Araghchi, «gli europei devono comprare petrolio da noi o considerare linee dei credito per questo meccanismo».

Troppo volatile per essere rassicurante. Da cui la decisione di superare quei 300 kg e non solo: Zarif ha aggiunto che, senza cambiamenti, l’Iran arricchirà l’uranio oltre il limite del 3,67%, magari fino al 20% già a partire dal prossimo 8 luglio. Se Zarif fa pressione, ammorbidita dal riconoscimento dell’impegno europeo e russo «nel distanziarsi dall’America», il suo portavoce Mousavi getta acqua sul fuoco: la decisione iraniana è «reversibile».

La tensione è alle stelle, accesa dagli Stati uniti e da sanzioni – reintrodotte nonostante l’Iran abbia rispettato alla lettera l’accordo del 2015 – che stanno facendo collassare l’economia interna, privandola dell’ossigeno (contratti con compagnie straniere, turismo, infrastrutture) che Teheran era convinta di archiviare.

Non solo: da settimane Washington ammassa navi e jet da guerra nel Golfo persico e accusa Teheran di sabotare petroliere. Fino all’apice: l’abbattimento di un drone-spia Usa da parte delle Guardie rivoluzionarie, lo scorso 20 giugno.

A soffiare sul fuoco ci pensa Israele (che armi nucleari ne possiede, pur non ammettendolo), da anni impegnato in palesi pressioni su Washington perché dichiari guerra alla Repubblica islamica: ieri il capo del Mossad, Joseph Cohen ha ricordato in modo sibillino che «lo Stato di Israele non ha firmato l’accordo». Per cui non solo non deve rispettarlo, ma «farà tutto il possibile perché l’Iran non raggiunga mai la bomba nucleare». Teheran è ben lontana, ma certe narrazioni sono utili a mantenere la regione sull’orlo del conflitto.

Conflitto che Trump potrebbe scatenare in autonomia: venerdì il Senato Usa ha respinto l’emendamento alla legge di bilancio della difesa che chiedeva l’approvazione preventiva del Congresso a un intervento contro l’Iran.