In questi giorni sta andando in discussione alla Camera, in seconda lettura, la legge di riforma della cooperazione allo sviluppo. Riforma attesa da anni (la vecchia legge è del 1987) – dopo la malacooperazione della seconda metà degli anni Ottanta e di tangentopoli e i tagli che hanno azzerato gli interventi – il nuovo testo sulla cooperazione è un mezzo passo in avanti rispetto alla vecchia legge, ma un’occasione mancata con diverse ombre.

È una legge che mette enfasi sulle imprese e toglie spazio al volontariato, che sposa il partenariato pubblico-privato, ma non riconosce alcun ruolo delle organizzazioni del sud del mondo, che lascia sullo sfondo il peace-building e ripropone l’ambiguità del rapporto tra azione umanitaria e intervento militare. È una legge che non tocca gli antichi equilibri istituzionali che hanno condotto nel pantano la cooperazione negli ultimi venti anni. Infatti – nonostante l’introduzione di un’Agenzia ad hoc – il ministero Affari Esteri rimane il dominus della cooperazione, facendone ostaggio della diplomazia della Farnesina e di una politica estera condizionata dagli interessi geopolitici e – magari – dagli interventi militari. L’Agenzia, introdotta dalla legge (che doveva essere la novità più importante e dare autonomia alla cooperazione), è semplicemente un contraddittorio strumento operativo, una sorta di service (che tra l’altro rischia di lasciare a casa una parte del vecchio personale), cui la legge esternalizza le funzioni tecniche. E il ministero dell’Economia e Finanze continuerà a gestire gran parte dei fondi, senza una logica coerente e finalizzata alla realizzazione degli obiettivi della legge. Infatti, il testo evita di introdurre il Fondo unico per la cooperazione, che avrebbe permesso di riportare a coerenza e a un comune indirizzo tutte le risorse, le politiche e gli interventi che fanno riferimento a quanto previsto dalla legge.

Questo sarà l’alibi per continuare sulla vecchia strada, ognuno per la propria strada, nella frantumazione delle politiche, delle scelte e degli interventi.

Le imprese diventano soggetti di cooperazione, che potranno attingere dai fondi pubblici per realizzare – in nome della cooperazione – una strategia di internazionalizzazione del loro business. Il volontariato, che era uno dei perni della legge del 1987 diventa poco più di una citazione nel nuovo testo. La società civile dei paesi del sud del mondo può essere al massimo beneficiaria degli interventi e non uno dei soggetti della cooperazione: questo sarebbe stato il vero partenariato da promuovere, non quello delle imprese. In questa legge c’è in filigrana l’assunto (molto liberista) che ai paesi del sud del mondo serve più mercato e competizione. E poi è vero che la legge esclude che con i fondi pubblici della cooperazione si possano finanziare gli interventi militari – e ci mancherebbe – ma è altresì evidente che non viene sciolta l’ambiguità e non viene esclusa la collaborazione tra cooperazione e forze armate in cui l’Italia è presente con operazioni militari di natura bellica.

Rimane, infine, la questione dei soldi. E su questo la legge non ci dice granché, se non prevedere qualche clausola di salvaguardia su fondi accantonati e struttura dei bilanci. Da anni i fondi per la cooperazione sono massacrati e ridotti al lumicino. Siamo il fanalino di coda dei paesi Ocse per fondi destinati all’aiuto pubblico allo sviluppo. Il ministero degli Affari Esteri fa bandi per i progetti delle ong in cui non garantisce di poter pagare la seconda tranche. Gli organici sono ridotti al minimo indispensabile. Un disastro. E all’orizzonte non ci sono novità: vedremo cosa ci sarà scritto nella legge di stabilità, ma non c’è da sperarci molto.

La nuova legge è un’occasione mancata: priva di coerenza tra le politiche, senza soldi, succube della politica estera, ambigua con gli interventi militari. Con in più un’attenzione eccitata alle imprese e al mercato. Il volontariato e le ong – e soprattutto i paesi del sud del mondo – meritavano qualcosa di meglio.