Quale è l’orizzonte del Paese? Sebbene ci sia un certo consenso sulla minore crescita dell’Italia rispetto alla media dei Paesi europei, un’analisi approfondita dei dati e delle statistiche macroeconomiche in questo caso ci possono aiutare nell’inquadrare il tema.

La natura tecno-economica di questa minore crescita, infatti, registra un conflitto di idee e analisi in cui è difficile districarsi. L’inerzia delle idee, l’egemonia delle teorie economiche e sociali liberiste, unite a interessi particolari e a una certa pigrizia intellettuale, impediscono una analisi autocritica dei vincoli che ostacolano la crescita, così come un livello dignitoso di qualità del lavoro, di efficienza del capitale e di rispetto della natura.

In aggiunta alle difficoltà appena ricordate, la pigrizia o la comodità di taluni intellettuali veicolano l’immagine di un Paese che sarebbe cresciuto meno di quanto potesse solo perché non si è fidato mai abbastanza delle dure, ma corroboranti virtù del mercato.

Lo stesso Presidente del Consiglio Draghi, durante l’Adunanza solenne di chiusura dell’anno accademico dell’Accademia Nazionale dei Lincei (1° luglio 2021), ha ricordato e sottolineato come e quanto il Paese sia cresciuto meno del suo potenziale.

La narrativa dominante ne attribuisce la responsabilità quasi esclusiva ai «lacci e lacciuoli» che scoraggiano e ostacolano l’iniziativa privata. Ci sarebbe, quindi, un potenziale di crescita che il Paese potrebbe agganciare con le così dette riforme strutturali.

La definizione di «potenziale» rimane per i più un mistero, ma è il caso di ricordare che «potenziale» nell’accezione neoclassica (liberista) è un vincolo tecnico e non un orizzonte comune da condividere. È una frontiera fissata dalla tecnologia, raggiungibile solo se i comportamenti sociali si assoggettano alle regole del mercato; non è un progetto di società da plasmare e organizzare attorno ai bisogni umani.

Sostanzialmente il mondo neoclassico immagina una curva di piena occupazione dei fattori di produzione oltre la quale sarebbe tecnicamente impossibile andare senza generare inflazione e squilibri. Una curva che solo l’oggettività del progresso tecnico può spostare in avanti e a cui ci si può avvicinare solo lasciando che i salari si allineino alla produttività del lavoro e lo Stato si limiti a fluidificare le condizioni in cui può liberamente esercitarsi l’imprenditorialità.

Se si uscisse anche solo di poco dal guscio ideologico neo-classico e si ricominciassero a frequentare anche altre scuole del pensiero economico, si scoprirebbe però che Pil potenziale non dipende solo da tecnologia e flessibilità del lavoro, ma anche e soprattutto da fattori come la distribuzione del reddito e la capacità dello Stato di orientare il mercato nel lungo periodo.

La politica economica del Governo Draghi è invece ancora la rappresentazione perfetta di una visione neo-liberista del vincolo «potenziale».

Sostanzialmente il Pnrr e le riforme strutturali a cui esso affida, quasi in esclusiva, il futuro del paese (pubblica amministrazione, appalti, digitalizzazione, giustizia, etc.) delineano l’orizzonte della modernità, cioè la necessità di liberare le «potenzialità» inespresse di crescita del Paese, sanandone le deviazioni dal sentiero «ottimale», senza quasi neppure chiedersi se «quel» modo di crescere sia compatibile con equità sociale e sostenibilità ambientale.

Nel Pnrr di Draghi non vi è alcuna ambizione di riorientare il modello di sviluppo, ma solo il tentativo di farlo funzionare meglio così com’è.

Non ci tragga in inganno la sospensione del Patto di Stabilità e la generosità degli interventi pubblici effettuati. La pandemia ha riallargato la forbice negativa tra Pil potenziale e reale, giustificando temporaneamente l’indebitamento ed il sostegno pubblico della domanda.

Ma l’intervento dello Stato è chiamato solo a tamponare gli effetti di uno shock inatteso ed esogeno e, nelle intenzioni del governo, l’operazione è destinata rapidamente a rientrare non appena si esaurisce l’emergenza.

Infatti il Def, licenziato dallo stesso governo Draghi nello scorso aprile, già annuncia un aggiustamento di bilancio di dimensioni ciclopiche anche nella sua componente non ciclica (il deficit strutturale è previsto ridursi di ben 5,5 punti di Pil nell’arco di un solo triennio).

Quanti oggi hanno la volontà di ricordarsi che il Pil potenziale italiano era ed è inferiore alla media europea, nonostante trent’anni di liberalizzazioni, riforme e austerità? La domanda non è di quelle che hanno in sé la risposta, ma cerca almeno di manifestare un certo disagio rispetto a certa letteratura.

Se usciamo dalla retorica autoconsolatoria del«“potenziale» di crescita limitato dai troppi «lacci e lacciuoli», potremmo forse scoprire che scarsa crescita, alta disoccupazione e bassi redditi sono oggi in Italia purtroppo coerenti con l’assetto economico che le politiche economiche finora perseguite ci hanno consegnato. E che il Paese non potrà avere un sentiero diverso fintanto che non cambia il motore.