Si racconta che Arnaldo Momigliano fosse preoccupato di dover scrivere per la «Treccani» la voce su Plutarco, senza averne potuto leggere per intero l’opera. Il testo comparve nel volume XXVII pubblicato nel 1935, e contiene oltre all’informazione di base meditati giudizi, che meritano ancora interesse (però chi cerca oggi la voce fidando nella rete, e non nella carta, trova come autore Attilio Momigliano, l’italianista. Errore non isolato nei materiali Treccani on-line…).
Momigliano per altro aveva ragione. Conoscere per intero l’opera di Plutarco pervenuta sino a noi è impegno non da poco: le quasi cinquanta biografie delle Vite parallele sono più note, assai meno lo sono i saggi riuniti sotto il titolo di Opere morali (Moralia). Dei circa ottanta trattati, talora di poche pagine, talora più ampi, non tutti erano finora disponibili e reperibili in traduzione italiana annotata. Di qui l’iniziativa coordinata da Emanuele Lelli e Giuliano Pisani, che ha condotto studiosi di varia età ed esperienza a mettere insieme in un volume piuttosto corposo tutte le Operette, con testo greco a fronte e note, insieme alle opere non autentiche e ai frammenti (Plutarco, Tutti i Moralia, Bompiani «Il pensiero occidentale», pp. 3192, € 70,00).
L’epoca di Jacques Amyot
Come d’uso nella collana, si sottolinea orgogliosamente come si tratti della «prima traduzione italiana completa» che in età moderna abbia riunito il materiale in un solo volume (il concetto è ribadito nell’introduzione dove si fa la storia delle traduzioni moderne della cospicua raccolta). Certo, non è più l’epoca di Jacques Amyot (1513-’93) che da solo tradusse le Vite e poi le Opere. Né quella di Marcello Adriani (1553-1604) che donò eleganza toscana alle moralità di Plutarco così che i suoi scritti «acquistarono quell’uniformità e quella leggerezza di stile che troppo spesso non ebbero dal loro autore», come scrive l’Ambrosoli, tardivo editore di quella traduzione, integrata con qualche aggiunta (Milano, 1825). Il volume Bompiani è redatto a più mani, come è inevitabile e forse giusto, vaste essendo le competenze richieste. Gli scritti di Plutarco coprono molti ambiti diversi della cultura, dall’etica alla filosofia, dalla critica letteraria alla politica, dalla scienza alla retorica, dalla religione all’erudizione, dalla zoologia alla cultura popolare. Non disturba che le traduzioni, le annotazioni e il commento presentino talora un passo differente, tanto più che nel volume sono ripresi e rifusi anche materiali già pubblicati per altre edizioni parziali. Opportuna è la selezione dei materiali adibiti al commento, dove la completezza sarebbe impossibile e renderebbe il tutto poco utilizzabile: l’introduzione generale alle Opere morali premessa a una celebre collezione francese conta oltre duecento pagine.
Lo scrupolo dei commentatori emerge dalla imponente bibliografia scrutinata, esito dall’intenso lavoro svolto sull’autore negli ultimi decenni. C’è stato infatti un «ritorno a Plutarco»: ne scriveva Carlo Diano nel 1965, e giustamente lo ricorda Pisani. Fino al principio dell’Ottocento era durata una ammirazione altissima per il Plutarco biografo, ispiratore di «egregie cose», e scrittore di temi morali. Invece nell’Ottocento storici e studiosi del positivismo mostrarono una forte delusione, irritati dagli elementi compilativi dell’opera di Plutarco, giudicata poco utile come fonte storica e anche poco originale (ma dire che questo fu esito di una «ottusa filologia», come qui si legge, è eccessivo). Oggi si è tornati a leggere lo scrittore antico con migliore consonanza, accettandolo come è, cercando di trattarlo anche unitariamente, con le Vite a illuminare le Opere morali, e viceversa. Eppure la nostra epoca è molto lontana dal modello degli uomini grandi, è molto allergica alle esigenze di una estesa minuziosa cultura, e molto indifferente al «bello stile». Che cosa dunque attrae verso Plutarco? Non certo la prosa lenta e talora sovraccarica, spesso migliorata dalle traduzioni che attenuano certe ridondanze (basta guardare il testo greco a fronte, derivato da edizioni critiche correnti, per notarlo). A interessare invece è la varietà dei temi che Plutarco seppe affrontare, la sua pacata argomentazione, l’efficace gradevolezza del suo ragionamento. I suoi scritti, soprattutto morali, sono abilmente disseminati di efficaci aneddoti, dotte citazioni, pensose massime. Questo è il frutto non di una mente originale e speculativa, ma di un grande ingegno, capace di decantare con mano sapientissima una lunghissima tradizione culturale.
Scoprire pagine inattese
Tra le tante pagine di questo erudito, moralista, filosofo, teologo e letterato, ciascun lettore può costruire la propria antologia. In effetti, il volume che riunisce tutti i suoi scritti invita a scoprire pagine inattese: una discussione su come leggere la poesia, una riflessione sugli usi alimentari, un dibattito sulla crisi degli oracoli, la descrizione di un rito esotico, un’indagine antiquaria su strani usi romani, i consigli a un assennato uomo politico, una polemica su Erodoto e i Beoti, una declamazione su Alessandro Magno, un saggio di critica letteraria, attacchi contro scuole filosofiche rivali, e altro ancora. Difficile non trovare qualcosa che non attragga, fosse solo per curiosità.
Moderato in ogni atteggiamento
Plutarco è per noi uno dei «frutti più maturi della civiltà ellenica», e il testimone di un ellenismo in versione greco-romana: egli per certi aspetti profittava della pace imperiale, per altri si volgeva al passato, come se il presente non esistesse. Ecco allora, proprio nelle Opere morali, un blandissimo messaggio politico: accettare la supremazia romana, ma non identificarsi con l’impero, che greco non era. Ecco anche lo sguardo al passato: la coscienza di una grande eredità culturale, e il piacere di una erudizione antiquaria. Il panorama culturale di Plutarco è politicamente sicuro, del tutto alieno da tendenze ribellistiche. Moderato egli appare in ogni suo atteggiamento: profondamente pio ma avverso alla superstizione; dotto filosofo ma opportunamente vòlto alla filosofia pratica verificata nei comportamenti di ogni giorno; preoccupato della salute dell’anima ma anche di quella del corpo; teorico della politica ma soprattutto amico dei romani potenti; custode d’identità greca ma, ripeto, intento a discutere soprattutto la Grecia del passato. Plutarco è capace di scrivere discussioni ispirate sulla «democrazia», riferite a Clistene, Solone o Pericle, ossia a situazioni remote di mezzo millennio, e di farlo in un tempo in cui le città greche erano rette dalla élite dei notabili, e l’impero era guidato dal governo di uno solo. Non è divisivo Plutarco, non suscita conflitti: come certi saggisti che portano grisaglie di buona fattura, senza tempo, persone che esibiscono un eloquio forbito e buone letture di tradizione. Perciò li si legge o li si ascolta con piacere: hanno un rassicurante sapore di cultura, che con buona volontà si può anche trovare attuale. Sono gradevoli perché non impegnativi: non ambiscono aprire nuovi mondi, ma insegnano a abitare con stile e dignità d’altri tempi nei mondi che già ci sono.
Le priorità di Plutarco non sono sempre le nostre: nelle simpatiche Questioni conviviali si leggono temi talora bislacchi (l’innesto nei pini, la maniera di dividere le porzioni a tavola, la posizione dell’alfa nella sequenza delle lettere, e così via). C’è un saggio sul problema della scarsa produzione di oracoli in versi da parte della Pizia: tema marginale già al tempo dell’autore. Il quale fu personalmente molto devoto, e ebbe grande interesse per il divino, in ogni forma. Dedicò la sua dotta attenzione ai culti di Iside e Osiride, ellenizzandoli e platonizzandoli secondo la sua maniera, e seppe qualcosa anche sul «dio dei Giudei»; ma non pare aver registrato la comparsa del cristianesimo, a differenza dai più accorti intellettuali del suo tempo. Certo, in compenso Plutarco sapeva stendere pagine ricche di common sense sui rischi derivanti dalla cerimoniosità che impedisce di dire di no; poteva disquisire sul controllo dell’ira senza esibire le nervose agudezas di un Seneca; aveva meditato bene il suo amatissimo Platone; poteva comporre ampie dossografie sulle dottrine più importanti delle scuole filosofiche greche (utili oggi, dopo la perdita degli originali); aveva certe sue idee sulla ‘buona’ politica, e arrivava persino a scrivere frasi forti come questa: «il regime politico che sistematicamente scarica i vecchi, finisce inevitabilmente per riempirsi di giovani assetati di fama e di potere, ma digiuni d’intelligenza politica: e dove l’acquisiranno del resto, se non potranno farsi discepoli o spettatori d’un vecchio che governa?». Tranquilli. Parlava in astratto. Non alludeva ai Renzi-boys.