Chissà cosa avrebbe pensato dell’abuso di parola pubblica nel nostro tempo il vecchio Plutarco (I-II d.C.), lui che con i Detti memorabili di re e generali aveva offerto all’imperatore Traiano un’originale antologia di risposte argute e ben assestate, di frasi aguzze e rivelatrici, di motti di spirito e gustose definizioni, di facezie e pillole di saggezza, tout court di apoftegmi. E cosa avrebbe pensato degli slogan di infimo livello dei nostri politici? E dell’imbarazzante approssimazione elargita a piene mani sui social media? E, viceversa, cosa penserebbero i nostri politici se – per ipotesi assai benevola – si trovassero a leggere questi Detti memorabili?
Nella lettera di dedica all’imperatore, Plutarco motivava il senso della raccolta (trasmessoci all’interno di quella ricca e variegata enciclopedia che sono le Opere morali) richiamando l’utilità di questi detti, memorabili per quanto apportano di utile «alla conoscenza del carattere e del comportamento dei potenti, che si manifestano più chiaramente nelle loro parole che nelle azioni». Il peso specifico riconosciuto alle parole, il senso più vasto che esse racchiudono, è enorme, ben maggiore di quello delle azioni – e non occorreva internet a quel tempo per comprenderlo. E a noi, ordinari mortali, che parliamo il lessico grossolano della rete e pratichiamo la rudimentale grammatica dei social media, quale effetto fanno questi Detti memorabili? La parola pubblica, appannaggio anche di quelle ‘legioni di imbecilli’ evocate da Umberto Eco, si scontra spesso col cattivo uso che di essa vien fatto: totalmente deresponsabilizzata e sovente aggressiva, diffusa in Rete con la stessa confidenziale disinvoltura con cui è somministrata nel tinello domestico, questa parola non è priva di conseguenze.
Anche alla luce di ciò converrà tornare a leggere i Detti memorabili di re e generali, di spartani, di spartane – sentenzioso distillato di parole che Plutarco ricavava, isolandole dalle azioni alle quali si trovavano frammiste, dalle sue stesse Vite parallele – nella traduzione di Carlo Carena (Einaudi «Nue», pp. 320, € 28,00). Della squisita arte di tradurre di Carena non serve qui dire, se non per rilevare il proficuo colloquio sul tema che il traduttore intrattiene da qualche tempo con questo genere di letteratura: sua la versione dei Modi di dire (Adagiorum collectanea) di Erasmo (2013) e quella delle Sentenze e massime morali di François de La Rochefoucauld (2015). Per di più Carena è molto a suo agio con Plutarco, con cui intrattiene «una lunga e affettuosa consuetudine» (come ricorda l’Editore) avviata sessant’anni fa con la traduzione annotata delle Vite parallele in tre volumi per i «Millenni» einaudiani: ben oltre 2000 pagine che consegnavano all’Italia del boom economico la prima traduzione moderna e integrale delle biografie plutarchee. (Ed era edizione di pregio, con riproduzione di incisioni tratte da una stampa cinquecentesca, carte geografiche, titolo in oro e fregi al dorso, che in qualche modo segnava il ritorno di Plutarco in Italia).
Non meno pregevole l’originale commento a questi Detti memorabili in cui sono posti a confronto stralci di versioni e observationes al testo di scrittori cinque-seicenteschi ai quali è legata la prima e matura ricezione moderna del testo plutarcheo, come Erasmo (che, traducendo e commentando questi Detti, veicolò «attraverso le parole di quei grandi antichi e dell’antico autore il proprio pensiero morale e la repulsione e condanna per l’immoralità pubblica e privata del suo tempo»), il fiorentino Marcello Adriani il Giovane (cui si deve la prima seppur incompleta traduzione delle Opere morali), naturalmente Jacques Amyot (la cui versione francese degli scritti morali e filosofici plutarchei è un capolavoro assoluto di arte traduttoria) o ancora Nicolas Perrot (fecondo autore di traduzioni ‘belle ma infedeli’, secondo la definizione coniata per la sua versione di Luciano). Nelle osservazioni di questi dotti, e di altri ancora, si può seguire la trama con cui l’originale plutarcheo è venuto in dialogo con il diverso sentire e ha attraversato la cultura umanistica fino all’età moderna.
Anche come frutto più spassoso, in grado di strapparci di tanto in tanto un sorriso (sollievo, lo notava già Erasmo, per la mente soffocata dalle occupazioni), non può che giovarci la lettura di questi Detti e forse pure metterci in guardia dalle odierne e farneticanti derive. Ma ci affaticheremmo invano a cercare qualche esempio di figura politica dei nostri giorni che ammettesse, sull’esempio di Dionigi il Giovane, di aver fatto fronte a un rovescio politico grazie agli scritti di Platone e alla sua filosofia (e sarebbe invero già arduo trovare chi avesse anche solo sfogliato qualche pagina di Platone).