Nella tarda mattinata di ieri sono arrivati i risultati ufficiali del voto presidenziale ripetuto il 26 ottobre (quello dell’8 agosto era stato annullato per «illegalità» e «irregolarità» dalla Corte suprema). Kenyatta vince con 7.483, 893 preferenze, pari al 98,27% dei voti. Ma con l’impossibilità di aprire le urne in 25 circoscrizioni elettorali e un’affluenza crollata dall’80% al 38%.

Si crea così una situazione di impasse da cui non sarà semplice uscire. Certo si potrebbe dar corso all’esito elettorale incoronando ufficialmente Uhuru Kenyatta come presidente, ma si aprirebbe un serio problema di rappresentatività dato che è andato a votare meno del 40% degli elettori ( in più in alcune zone, non ci è andato nessuno). Poi dove si è votato non sono mancate le anomalie: ad esempio, in 4 seggi si sono rilevati gli stessi identici voti delle elezioni di agosto: fatto possibile, ma poco probabile.

Si potrebbe ascoltare la richiesta dell’opposizione di indire nuove elezioni entro 90 giorni (con la netta opposizione del vice presidente designato William Ruto), ma persiste il problema legale che non si possono indire elezioni senza un supporto costituzionale. E in ogni caso il paese resterebbe per altri tre mesi in questa fase di grande incertezza.

Gli inviati delle istituzioni africane, europee e statunitensono impegnate per favorire il dialogo tra i due figli dei padri fondatori, Jomo Kenyatta e Jaramogi Oginga Odinga, che insieme lottarono per l’indipendenza per prendere poi strade diverse nel 1966. Odinga finì anche in carcere e la separazione non si è più ricomposta.

Secondo fonti desecretate della Cia, in quegli anni Jaramogi Oginga Odinga lavorava alle spalle del presidente Jomo Kenyatta per prendere il potere: «C’erano reali possibilità che avrebbe potuto rovesciare Kenyatta forse con un colpo di stato». Il rapporto evidenzia che Kenyatta era al corrente delle voci di un colpo di stato e avrebbe chiesto ai militari inglesi di stare in allerta. In un caso le truppe inglesi allontanarono una nave sovietica che si ipotizzava potesse trasportare armi destinate a un esercito clandestino. I militari trovarono nell’ufficio di Odinga casse di armi, ma di cui «il presidente sapeva», sostenne Odinga.

Secondo la Cia, Jaramogi Odinga aveva occupato l’amministrazione pubblica con i suoi amici attraverso elargizioni di borse di studio e soldi. Avrebbe inoltre stretto accordi con i paesi comunisti che includevano anche l’addestramento del suo esercito privato senza avere prima l’autorizzazione di Kenyatta.

Un documento della Cia del 31 luglio 1964 bolla Odinga come «il tipico politico africano che deve la sua posizione più all’età e allo status tribale che al merito e alle sue capacità intellettuali». Odinga ha negato questa lettura, ritenendola «una macchinazione anticomunista». E ha spiegato: «Io non sono comunista, ma sono stato un costante bersaglio di forze anticomuniste durante tutti gli anni della mia storia politica».

Una vicenda vecchia cinquant’anni, ma che negli anni si è alimentata dell’ukabila, il fattore tribale. Ne è venuto fuori un intreccio pericolosissimo costituito da sete di potere, personalismi, denaro e assenza di senso della funzione pubblica che mischiato con l’etnia sta trascinando il paese verso il rancore reciproco e l’ingovernabilità, o una governabilità senza consenso. In tutto questo c’è l’ulteriore debolezza della società civile incapace di essere voce terza e indipendente: ferma, assente, incapace di comprendere che per cambiare la situazione non serve esprimere la propria opinione, ma agire.

E mentre la gente la gente in strada chiede una pace vera e inclusiva, un primo passo è stato fatto dai governatori di Kisumu e Kericho, il primo pro-Odinga il secondo pro-Kenyatta, che hanno fatto un giro insieme tra le barricate erette nelle due contee, chiedendo alla gente di non combattere più.