Fra i nomi di rilievo nella cultura britannica contemporanea non si può non includere PJ Harvey, al secolo Polly Jean Harvey. La Harvey è oggi una star, nota per la sua musica da anni (scrive, canta, compone) ma la si potrebbe senza problemi definire un’artista a tutto tondo, dato lo spettro ampio del suo eclettismo, dal momento che è scrittrice e poetessa, ma anche scultrice, pittrice e disegnatrice; attrice di cinema indipendente (H. Hartley), editor e ispiratrice di programmi radiofonici (BBC Radio 4) e chissà cos’altro sarà ancora. In aggiunta – ecco la suggestione che si vuol proporre – PJ Harvey può essere considerata come una specie di «classico contemporaneo», una formula per intendere qui una voce in grado di raccontare il presente ma attraverso una forza tale da diventare modello.

Tutto questo – e altro – si percepisce bene nel suo ultimo lavoro, The Hope Six Demolition Project, pubblicato lo scorso anno. Si tratta di una sorta di concept album sul tema del viaggio declinato come scoperta e osservazione politica di una idea di mondo, qualcosa di diverso dopo Let England Shake ma allo stesso tempo l’ennesima prova di una continuità in PJ Harvey, sotto il segno del rinnovamento tematico e stilistico come stelle fisse. Il disco nasce da una serie di viaggi dell’artista tra Kosovo, Afghanistan, Washington DC. Nello specifico, quello americano è alla base del titolo – Hope VI è un piano statunitense di «cambiamento» urbano di aree degradate in diverse loro città.

Ora, ascoltando i brani, si può notare come in tutti ci sia una tendenza alla coralità (scrittura, arrangiamenti). Le canzoni raccontano di personaggi detestabili (The Ministry of Defence, The Ministry of Social Affairs), comunità «vicine» o «lontane» (The Community of Hope, The Orange Monkey) e di molto, molto altro. I motivi della guerra, della povertà, del degrado, della violenza sono dominanti. E la logica che guida il corso di tutto questo – centralità dell’America e dell’Occidente – insieme a dove arrivano le conseguenze – Afghanistan, Kosovo – è presente ma senza «messaggi a tema».

A questo punto si dirà: cose già dette. Forse. In ogni caso ciò che qui assume un senso interessante è il passaggio che il disco segna nel percorso dell’artista, un prendere di petto questioni politiche. In questo PJ Harvey non tradisce il passato, dal momento che non è mai stata e non è cantautrice di protesta, almeno stricto sensu. Non c’è retorica, né slogan o didascalismi. Tutto invece passa attraverso il suo genio lirico e narrativo e, se si vuole, la figura di viaggiatrice che è per forza di cose stata in relazione a questo lavoro. Ma non è forse il viaggio il modo ideale per raccontare il presente, tra qui e altrove? E non è forse la letteratura di viaggio uno dei generi classici per eccellenza? PJ Harvey ha scritto le canzoni di The Hope Six Demolition Project durante alcuni viaggi assieme al fotografo e filmmaker irlandese Seamus Murphy, tra il 2011 e il 2014. Inoltre, si sa che un altro frutto di queste esperienze è il suo primo libro di poesie, The Hollow of the Hand (2015), e molto si è scritto sulle correlazioni tra questi due lavori, i quali condividono la stessa origine e gli stessi temi – in aggiunta, il libro rende esplicita la «fonte» con la divisione per sezioni relative ai viaggi e presenta fotografie scattate da Murphy. Interrogata in merito, l’artista ha spesso parlato di processi di scrittura differenti. A leggere però i testi si notano canzoni identiche a poesie, tipo The Orange Monkey, lievi rielaborazioni come Chain of Keys o Dollar Dollar (The Glass nel libro) e molti altri legami più o meno visibili.

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Cosa significa questo? Certamente non negare quanto PJ Harvey ha affermato. I testi in poesia sono poesia – o devono comunque essere letti come poesia – mentre quando sono canzoni vanno ascoltati come tali. Al contrario è invece interessante soffermarsi su come la presenza di un libro del genere può forse aiutare a rivelare meglio le qualità letterarie della scrittura-in-musica dell’artista, sottolineando un «modus operandi». In The Hollow of the Hand l’io-lirico è quello di una testimone contemporanea che si trova a contatto con diverse apparizioni e sparizioni dell’Altro. A questo il disco aggiunge una amplificazione, una eco. Inoltre: il mistero e il realismo visti o attraversati assumono l’immagine di correlativi oggettivi scanditi in un ritmo conciso.

Qui, i maestri di riferimento possono senz’altro essere T. S. Eliot e H. Pinter, e questo fa trapelare un gusto per un modernismo classico – lo stesso nelle scelte musicali – che riflette un’attenzione maniacale alla limpidezza della forma compositiva come la miglior via per poter tentare di alludere a quanto, di ogni situazione, non si può «fissare». E una volta in musica tutto questo rimane.

Vista all’Alcatraz (Milano) l’anno scorso, la scenografia di The Hope Six Demolition Project – la direzione dello show è del regista teatrale Ian Rickson, il design dell’artista Jeremy Herbert – presenta uno sfondo quasi brutalista, con un muro che, alla fine, viene tirato giù. Sul palco la band entra attraverso una specie di marcia militare: diversi talenti assieme all’artista – si va dalla presenza d’obbligo di John Parish (suo soulmate musicale) a novità come il nostro Enrico Gabrielli (The Winstons, Calibro 35 e altro). Ora, molta critica ha sottolineato come le esibizioni in questo tour di PJ Harvey siano più vicine all’idea di performance teatrale rispetto alle esperienze passate, senza però andare a scavare di più sulla questione.

Sicuramente, sul palco, niente è lasciato al caso, tanto che non è sbagliato leggere la messa in scena complessiva come supplemento del progetto-discorso, a partire dal simbolismo del muro, con tutto quello a cui può alludere in relazione ai temi del disco: guerra, povertà, mala-politica – una costante da Est a Ovest – ma anche forme di possibile resistenza a tutto questo.

Su tale sfondo l’artista continua a suonare con i suoi collaboratori storici a cui però si sono aggiunti altri musicisti, altri uomini. Il risultato è una scena che sembra quella di un coro, tutto maschile, alla cui guida c’è appunto una presenza femminile, qualcosa che se si vuole esalta la «passione per gli estremi» di PJ Harvey e le sue implicazioni femministe, ma allo stesso tempo non può non suggerire – in una logica teatrale – la traccia di una disparità di genere alla base di molti dei disastri narrati in The Hope Six Demolition Project. Infine, non si può non menzionare la distanza emotiva che nell’esibizione l’artista tende a porre tra sé e il pubblico, salvo poche concessioni: qualcosa da sempre implicito nella sua attenzione al look come maschera; qualcosa che qui sembra acquistare un senso di necessità in relazione proprio alle canzoni di questo disco. Come a suggerire: solo così è possibile cantarle.