«Possiamo attendere maggio per sapere come sarà la mappa politica dell’Italia dopo il voto nelle prossime sei regioni, oppure il centrosinistra può prendere subito esempio dall’Emilia Romagna e riadattare le campagne elettorali, la selezione dei candidati, i modelli di coalizione in tutte le competizioni. Senza dare per scontate le sconfitte, come si è fatto in Calabria. Vincere si può, ma bisogna aver imparato la lezione». Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, leader di Italia in Comune ed ex M5S, è già proiettato nel futuro. A patto che si segua una strada fatta di «apertura, contaminazione, sguardo lungo, progettualità e coraggio».

Sindaco, questa vittoria in Emilia Romagna è un premio al Pd o una punizione alla Lega?
È un successo del centrosinistra, del suo fronte di liste ampio e variegato: uno degli ingredienti della vittoria. Come ha detto lo stesso Bonaccini, essere riusciti a trovare una mediazione nelle varie voci e a sintetizzarne una sola, in una sinistra solitamente litigiosa e divisa, ha prodotto un mix vincente, insieme all’obiettivo non banale di contrastare l’avanzata di Salvini.

Ma la paura è stata grande, e il risultato della Lega non proprio banale.
Il solo fatto che ci sia stato il dubbio di poter perdere in Emilia Romagna, deve far riflettere. Però la scelta del modello per vincere la sfida non era scontata. Non lo erano i toni e i programmi, le alleanze e i candidati. Soprattutto, non si è fatto l’errore di seguire l’avversario.

E invece l’errore fondamentale della Lega, se dovesse sceglierne uno?
Salvini ha perso il senso della misura. Tra Bibbiano e i citofoni, ha finito col gestire la candidata togliendole soggettività. Un po’ come hanno fatto in Sardegna, dove le promesse di Salvini sono però svanite nel nulla insieme al leader leghista, subito dopo la vittoria di Solinas. E i problemi sono rimasti. Però l’Emilia Romagna non è la Sardegna.

Questo centrosinistra dal ’campo largo’ però non è riuscito a trovare un’intesa con il M5S, e non sembra riuscirci in altre regioni chiamate al voto quest’anno.
E meno male, aggiungo io. Sono sempre stato contrario al ragionamento, che ha attecchito anche in E-R, secondo il quale si sarebbe vinto solo unendo gli elettori del M5S e del Pd. Credo invece che sia più importante il candidato e ciò che si è costruito negli anni, in termini di lavoro sul territorio, di credibilità e di risultati. E i 5 Stelle non raccolgono nulla, da questo punto di vista.

Come ha fatto il M5S a scomparire di fatto dalla terra dove era nato?
Da tantissimi anni hanno abdicato al dialogo rispetto ai “capibastone” come Bugani. Questo atteggiamento ha spinto molti attivisti a ritirarsi e senza l’attivismo non si partecipa alla vita politica dei territori. Man mano sono stati costretti a rinunciare alle competizioni elettorali. Questa parabola plastica era molto prevedibile fin dall’inizio, da quando divenne chiaro che per loro era più importante il voto d’opinione che il lavoro sui territori. Quando io sollevavo il problema della mancanza di strutture territoriali, la risposta era: noi siamo liquidi, non ci servono. La verità è che il potere verticistico si mantiene nella disorganizzazione, ma alla lunga ha distrutto il movimento.

I giovani tra i 18 e i 34 anni hanno votato soprattutto Bonaccini (al 61%). Quanto ha pesato il voto delle sardine, secondo lei?
Tanto, dal punto di vista di avvicinamento al voto. Le piazze di nuovo piene hanno avuto l’effetto di galvanizzare l’elettorato di sinistra e spingerlo a tornare alle urne. E contemporaneamente hanno oscurato le gesta di Salvini. Questa competizione, così serrata, ha avuto un doppio effetto positivo sull’affluenza.

Dunque ha ragione Salvini quando dice che grazie a lui la sfida elettorale si è giocata davvero?
Ma sì, ha fatto bene il doversi rimettere in discussione allo scopo di costruire nuove alleanze.

Allargare lo sguardo al movimento delle sardine vuol dire entrare in un campo progressista moderato che vira più verso il centro o a sinistra?
Moderato, sicuramente, nei toni e nel linguaggio. Ma dal punto di vista del programma politico è tutto da vedere, perché sulla base dell’antifascismo e dei valori fin qui incarnati non si costruisce una politica nazionale, non si decide quale tipo di politica ambientale e con quali infrastrutture, o come declinare l’articolo 18. Quando si iniziano ad affrontare i nodi, allora sorgono le questioni divisive, e generalmente la piazza si spacca.

Lei si impegnerebbe per dare corpo ad una fase completamente nuova del Pd?
Ho sempre detto che sarei disponibile a fare la mia parte, se me lo chiedessero. Però con un soggetto politico diverso, che abbia imparato la lezione di questi anni.

Che sarebbe?
Quella che ha individuato lo stesso Zingaretti. Però non basta dirlo: il Pd si deve aprire alla contaminazione di altri partiti, movimenti, e soggetti politici. I voti del solo Pd non bastano più. Ma nella nuova cornice della contaminazione bisogna far scaturire una nuova visione di Paese. Non bastano i valori, i riferimenti di massima: occorre pianificare almeno i prossimi quindici anni di sviluppo. E avere il coraggio delle proprie idee.