Anche se nell’ambiente correva voce che alcuni suoi scatti fossero manipolati con photoshop, vedere la prova che anche il celebre fotoreporter americano Steve McCurry ha ritoccato alcune sue immagini togliendo persone, oggetti, aggiustando elementi, ha fatto scoppiare una discussione che va avanti da oltre un mese su che cos’è il fotogiornalismo. Quarant’anni di reportage alle spalle e firma di punta della Magnum e del National Geographic, McCurry ha dichiarato che starà più attento, ma che ormai lui si considera un visual storyteller.

A parte il fatto che non se ne può più di sentire parlare di narrazione e storytelling, come se chiamarlo linguaggio fosse antiquato, il punto che solleva la vicenda McCurry è proprio sulla differenza fra fotoreporter e raccontatore per immagini.

Gianmarco Maraviglia, fotografo e fondatore dell’agenzia Eco Photojournalism che ha contribuito a scatenare il caso McCurry postando su FB uno scatto prima e dopo la cura, dice: «Le regole che il fotogiornalismo si è dato sono chiare. Lavorare sulle luci è ammesso, e già lì ci sarebbe molto da dire perché una foto può cambiare completamente se aumento il contrasto. Quello che assolutamente è proibito è togliere, aggiungere, aggiustare e infatti in molti concorsi chiedono l’elaborazione dell’immagine in raw, cioè grezza e non modificabile. Io sono un purista. I fotoreporter che lavorano con noi mai ricorrerebbero a photoshop. Che messaggio diamo ai lettori se anche un famoso fotoreporter lo usa?»

Eccolo il punto. Che cosa significa oggi ritrarre fatti, eventi, persone?

Posto che la verità assoluta non esiste perché dipende sempre dal punto di vista di chi scatta e dalla percezione di chi guarda la foto, ci sono foto credibili e non credibili, che svelano o che mostrano, che colgono l’attimo o sono costruite.

Secondo Uliano Lucas, questa differenza non dipende solo dalle nuove tecnologie, ma dallo scopo che perseguono.

Dice Lucas: «Il grande cambiamento è avvenuto passando dalla fotografia all’immagine, due cose completamente diverse. Finché la foto è stata un prodotto legato all’uso di macchine, rullini, flash, il nostro mestiere di fotoreporter era legato alla capacità di inventare una foto. Con la rivoluzione digitale, che rende tutto possibile, quel rapporto di sapere è finito e si è passati all’immagine. Per fare una foto io devo andare su un posto, studiarlo, costruire un rapporto di fiducia con le persone e se funziona le persone si donano. È un principio di etica. Nella foto la gente può solo donarsi. Se rompi questa etica non sei più un fotografo, ma un avventuriero che rende la foto una merce. Da 10 anni ormai la moda sui periodici illustrati è copiare il Caravaggio. Si ama un realismo caravaggesco possibile grazie alla post produzione che modifica una foto in senso estetico. Il massimo esponente di questa tendenza è Salgado. Se non insegni alla gente a guardare, e bisognerebbe cominciare nelle scuole, questa tendenza aumenterà e solo un’élite sarà in grado di cogliere la differenza fra una foto e un’immagine».

Nell’ormai procelloso mestiere di giornalista, ho visto studi di conosciuti fotografi spianare rughe, alzare zigomi e glutei, rimpolpare tette, cancellare smagliature, assottigliare corpi di attrici e attori, in una straripante complicità fra soggetto, fotografo e testata che, non sentendo più freni, corregge così tanto da sfiorare spesso il ridicolo.

Se questa malìa continuerà a infettare anche il reportage, finiremo annegati nel photoshop che rende più neri i neri, più dannati i dannati, il vero più vero. Finché niente sembrerà più quello che è.

mariangela.mianiti@gmail.com