Quando l’artista Mike Kelley fu trovato morto nella sua casa di South Pasadena, California, un giornale locale ebbe la splendida idea di pubblicarne l’indirizzo, costringendo così la famiglia a ingaggiare una guardia di sicurezza per tenere a bada fan e curiosi. Si presentò una donna, che sembrava uscita dal film Ghost: come il personaggio interpretato da Whoopi Goldberg era anche lei una medium, e in quanto tale non tardò a stabilire un contatto con il defunto artista. Il quale le diede su due piedi un paio di indicazioni molto precise: nella prima le intimava di non parcheggiare l’auto nel vialetto d’ingresso, tanto più che perdeva vistosamente olio; nella seconda invece le descrisse una sua opera inedita (la “piovra che fa l’occhiolino”) e soprattutto le indicò il luogo segreto in cui effettivamente gli assistenti di Kelley non ebbero difficoltà a rintracciarla.

Che ci faccio qui

Già che c’era poteva chiedergli se davvero si era suicidato, ma questo non è un programma di scoop criminali. Ghost Voice è solo una delle “storie” che compongono The Deepest Lake, l’ultimo lavoro di una band chiamata Dengue Fever. Nome obiettivamente repellente, almeno per chi deve fare i conti con la zanzara che provoca la temibile febbre dengue. Ma non è questo il punto. Non lo è in modo particolare se vi state chiedendo perché la storia di Kelley è finita in questa pagina. Non ci sarebbe finita in effetti, neanche sapendo che l’agente dell’artista è un amico della band, se non fosse che le canzoni di questo sestetto californiano sono tutte cantate in lingua khmer.

I Dengue Fever lavorano molto sui testi, ma ancor più attenzione prestano al suono, all’espressione e alla potenza tonale di un idioma che nell’economia sonora della band è appunto considerato come uno strumento aggiuntivo. E la cosa riesce bene grazie a una “strumentista” eccelsa come Chhom Nimol, cantante immigrata negli States quindici anni fa, che ha ottenuto la cittadinanza proprio grazie all’impiego stabile nella ditta diretta dai fratelli Zac e Ethan Holtzman, rispettivamente chitarrista e tastierista della band. Sono loro ad averla scovata una sera del 2001 al Dragon House, un club situato nel cuore della cosiddetta Little Phnom Penh, a Long Beach. A quei tempi i musicisti che poi formeranno Dengue Fever erano concentrati sul «disperato tentativo di non dare vita all’ennesimo gruppo indie-rock della costa ovest», racconterà poi il bassista Senon Williams. Come non capirli. Con lei avevano trovato l’America. E la cosa fu ovviamente reciproca.

Dengue Fever
Dengue Fever (foto Lauren Dukoff)

Una nicchia di tutto rispetto

Nella geografia confusiva della “vera” world music, quella per cui esistono la salsa giapponese e i cantanti reggae bergamaschi, i Dengue Fever occupano una nicchia di tutto rispetto. E il loro profilo sonoro, arrotondato in questo ultimo disco con pennellate elettroniche e derive controllate verso altri tropici, tende a muoversi nello spazio come nel tempo. È figlio di una passione smodata per quella che tra gli anni ’60 e ’70 fu una sorta di Swingin’ Phnom Penh, una scena fiorita alla confluenza tra folk locale e rock occidentale, In Cambogia. Una delizia che si pensava perduta e che i componenti del gruppo hanno recuperato grazie alle cassette comprate sulle bancarelle nei loro viaggi sud-est asiatici.

In questo senso i Dengue Fever fanno parte dello stesso movimento che rilancia oggi, con una certa consapevolezza, fenomeni defilati della cultura pop globale scovati negli archivi del Perù o dello Zambia , che illustrano il contributo dato al mondo del rock e al rock del mondo (in particolare quello di matrice psichedelica) in contemporanea con quanto accadeva a Londra e a New York.

È quindi con insospettabile sincronia, proprio come accadeva in altre “periferie dell’impero” a noi familiari, che le popstar cambogiane usavano riprendere successi del rock inglese e statunitense per sostituirne o parafrasarne il testo in lingua khmer. La differenza sta nel fatto che per questo in Cambogia si poteva morire.

La voce abrasiva del sopravvissuto

Srei Thy
Srei Thy

Molti dei protagonisti di questa scena sono stati infatti spazzati via, insieme alla musica che suonavano, durante l’epoca dei khmer rossi. Molti, ma non tutti, come dimostra l’esperienza “sul campo” di un altro straniero indiscreto come Julian Poulson, originario della Tasmania e arrivato a Phnom Penh in cerca di emozioni (musicali) forti. Frequentando i peggiori karaoke bar della capitale, un giorno s’imbatte nella cantante Srei Thy e un po’ si ripete la scena già vista alla Dragon House di Long Beach con i Dengue Fever. Poulson una band ancora non l’ha ancora messa su, l’idea di The Space Cambodian Project gli viene proprio ascoltando lei, che per la cronaca sta cantando una canzone di Peggy Lee, Johnny Guitar.

Non sa ancora che il maestro di Srei Thy, l’anziano cantante e musicista non vedente Kong Nay, detto il Ray Charles di Phnom Penh, è appena dietro l’angolo. E con la sua voce pastosa e abrasiva da sopravvissuto, in contrasto lacerante con il cinguettìo della sua giovane allieva, firma alcuni dei brani migliori nella prima fase del project. Ai tempi delle purghe polpotiane, per salvare la pelle dovette riconvertirsi a un repertorio che rispondeva agli ideali culturali del regime. In lui Poulson trova piuttosto un Leadbelly locale, un autentico bluesman del delta del Mekong.

Ad altri è andata meno bene. Più o meno di questi tempi, 40 anni fa, i khmer rossi iniziarono ad accanirsi con particolare zelo sui modelli culturali importati o non conformi alla furia autarchica che si era innescata. Va da sé che i rocker le cantanti con l’acconciatura alla Supremes erano in cima alla lista. Flirtare con la musica del nemico – anche se espressione di un antagonismo interno – equivaleva a essere considerati complici. Per questo la cantante Houy Meas venne stuprata e mutilata, mentre Sinn Sisamouth, a cui si deve una fulminante versione khmer della House of the Rising Sun resa famosa dagli Animals, sembra che venne costretta a cantarne una delle sue di fronte al plotone di esecuzione. E altre voci molto amate come Ros Sereysothea e Pan Ron, i cui brani formano oggi il repertorio dello Space Cambodian Project, vennero ridotte al silenzio, finendo insieme a tanti artisti e intellettuali tra i circa due milioni di cambogiani eliminati in questo periodo. E stessa sorte seguirono i loro dischi, nel tentativo di far sparire ogni traccia.

 

Dettagli globali e mission locale

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The Cambodian Space Project riprende i tratti salienti di quel che precedette di poco quell’epoca tragica esaltandone i dettagli, gli abiti glamour, le pose provocanti, l’energia sbarazzina del surf e del garage rock made in Cambodia, la sua componente più lisergica. A tratti sembrano la versione khmer dei B52’s (non i bombardieri mandati da Nixon nel 1969, ma l’omonima band di Athens, Georgia, che furoreggiava nella new wave degli anni ’80). Il progetto ha una dimensione internazionale – la musica cambogiana non godeva di tanta considerazione da oltre un secolo, dalla visita in Francia di re Sisowath con Balletto reale al seguito, istituzione anch’essa oggetto di revival – ma anche una sua mission locale, l’impegno a riportare anche nei villaggi più remoti del Paese brandelli luccicanti di quel che venne strappato dalla vita delle persone.