Lo sgombero e il rogo del Grand Ghetto hanno mostrato che c’è poca chiarezza su cosa si debba fare contro il caporalato, che non è una patologia dell’arretratezza, ma una forma organizzativa della modernità capitalistica, nella quale il valore prodotto viene prevalentemente sequestrato dai gruppi di acquisto e dalle grandi catene di distribuzione, dunque i produttori recuperano margini di profitto sfruttando la manodopera dal punto di vista del salario e dell’orario.

Abbiamo visto due approcci distinti ma complementari: quello umanitario (gli immigrati come vittime da salvare, magari dalla criminalità organizzata, e da assistere) e quello penalistico (i caporali come i cattivi da reprimere). La sinistra dovrebbe prendere atto dell’inadeguatezza di questi approcci.
Un approccio materialistico dovrebbe partire dalla consapevolezza dell’inutilità della chiusura dei ghetti – il ghetto è la conseguenza, non la causa del caporalato, come ha scritto acutamente Alessandro Leogrande -, sinché il mercato del lavoro sarà dominato dall’intermediazione dei «capi neri», che forniscono alle imprese agricole tre attività che le amministrazioni pubbliche non garantiscono e che le imprese non svolgono: il reclutamento della manodopera, con la variabilità temporale che condiziona alcune filiere del settore, il trasporto sui luoghi di lavoro, la direzione del lavoro sui campi.
Infatti, sono spesso i lavoratori stessi a voler restare nei ghetti, a contatto con chi procurerà loro il lavoro e li trasporterà sui campi.

L’esperienza della Puglia insegna: la Regione – con il sostegno del sindacato – ha dimostrato di saper intervenire, e ha fatto molto: non solo una legge, ma una attività attuativa che ha portato 14.000 lavoratori agricoli, quasi 20.000 edili dal 2005 al 2007, a passare dall’area del lavoro nero almeno a quella del lavoro grigio, sulla base di una impostazione innovativa che coniugava controlli, sanzioni e incentivi. Quando è cessata la spinta politica ad applicarla, la legge regionale è divenuta un orpello retorico: nessun organo statale comunicherà mai alla Regione – una volta ridotti drasticamente gli stanziamenti e riformulate burocraticamente le convenzioni – gli esiti dei controlli effettuati, per cui le sanzioni previste non sono state mai inflitte dalla Regione stessa.

Le misure statali sono anche più inefficaci: il reato di caporalato era così mal congegnato da aver richiesto la riscrittura nella legge 199/2016, mentre alla Rete del lavoro agricolo di qualità aderisce una quota minima di imprese agricole (per ora 2.217 su 1,62 milioni), per di più rischiando di esonerarle dai controlli sulla base di una regolarità puramente formale.

Gli stessi indici di congruità sono stati sperimentati in agricoltura, ma – oggetto di contenzioso delle organizzazioni datoriali e delle forze del centro-sinistra ad esse legate – si sono rivelati non risolutivi, sia perché non applicati dalla Regione Puglia, sia perché è possibile alimentare il mercato nero che vede accreditate agli immigrati una parte esigua dei contributi dovuti, e le altre giornate accreditate invece dai datori – a pagamento – a italiane e italiani per ottenere abusivamente prestazioni Inps.

Occorre la ripresa del disegno della legge regionale 28/2006, con un congruo investimento regionale, per assicurare alle imprese il pronto reclutamento del lavoro tramite il servizio pubblico per l’impiego, che deve adoperare le tecnologie moderne che adoperano talvolta i caporali – il ruolo delle agenzie di somministrazione è stato dimostrato dalla tragica morte sul lavoro di Paola Clemente con gli arresti che ne sono seguiti – il trasporto sui luoghi di lavoro, pubblico o convenzionato; l’alloggio a condizioni umane in strutture pubbliche o ristrutturando con contributi pubblici il patrimonio edilizio privato di casolari. La chiave è abolire il «salario di piazza»: se i lavoratori immigrati fossero pagati per quel che loro spetta in base ai contratti provinciali di lavoro, non abiterebbero nei ghetti.

* Università di Foggia
** Flai Cgil Foggia