Sarebbe stato molto più onesto dire che la linea «dura» nei confronti dell’Egitto di al Sisi non aveva portato a nulla e che gli interessi nazionali imponevano un repentino cambio di strategia.

Cari familiari di Giulio Regeni, il gas egiziano in questo momento è troppo importante per noi e l’aiuto che il Cairo offre sul caotico scacchiere libico è una priorità nazionale, tutto il resto viene dopo.

Raccontare invece, come fa il governo italiano, che gli atti provenienti dalla procura egiziana segnano una svolta e che il ritorno dell’ambasciatore in Egitto servirà anche a fluidificare il percorso verso la verità, suona offensivo ben oltre le ragioni della real geopolitik. Soprattutto all’indomani della robusta ricostruzione del New York Times, in cui viene detto chiaramente come l’Italia (il governo Renzi, con l’attuale premier Gentiloni agli Esteri) fosse perfettamente a conoscenza della matrice «di stato» di quel brutale omicidio.

Ieri anche la Repubblica si compiaceva per come il lungo articolo di Declan Walsh coincidesse con le sue interpretazioni dell’epoca. Non notando, forse, come l’articolo a un certo punto ipotizzi che l’intervista-monstre concessa da al Sisi al quotidiano, o viceversa, sia stata ispirata dai servizi italiani.

Si può così comprendere lo sconforto dei genitori di Regeni e di tutti coloro che a vario titolo hanno tenuto il punto, nel corso di un anno e mezzo in cui nulla di nuovo è intervenuto a giustificare il contrordine. Non certo un’apertura del regime di al Sisi sui diritti umani, come dimostra la cieca repressione di ogni dissenso e il ripetersi di esecuzioni extra-giudiziarie con le stesse modalità osservate nel caso Regeni.

Nel suo insieme la vicenda misura l’incapacità della politica estera italiana – come rilevava Luigi Manconi su questo giornale commentando a caldo l’annuncio ferragostano di Alfano – di avere «una propria autonomia e un disegno di lungo periodo». Avendo come unici fari l’accaparramento di nuove fonti energetiche fossili e la «sicurezza», che vuol dire sia schivare gli schiaffi potenziali dell’Isis sia ricacciare indietro la pressione migratoria alle nostre frontiere meridionali. È urgente – lo spiega l’iperattivismo volitivo del ministro Minniti – rispedire in Libia il maggior numero di migranti e arginare l’opportunismo francese, con Macron sempre pronto ad approfittare delle difficoltà italiane.

La verità può attendere. Attendere l’apertura degli archivi che la nascondono. Un tempo più incline al lavoro degli storici che a quello di inquirenti e giornalisti.