È durata poche ore l’illusione di una tregua annunciata dalla giunta. Poi l’esercito birmano ha ricominciato la sua battaglia su due fronti: col movimento pacifico che sta ormai diventando sempre più reattivo alla violenza di Tatmadaw (i militari di cui ieri ha bruciato due esercizi commerciali a Yangon) e le autonomie regionali armate, ormai apertamente schierate dalla parte della rivolta.

Mentre continua a salire il bilancio delle vittime – oltre 540 tra cui, secondo Save the Children, più di 40 bambini – l’avvocato di Aung San Suu Kyi, la leader birmana deposta dal golpe del 1 febbraio, ha reso noto che, dopo le accuse «minori» (corruzione, possesso illegale, violazione di norme anti Covid) la giunta si appresta a giudicarla per violazione del segreto di Stato, legge dell’epoca della colonia britannica che prevede sino a 14 anni di reclusione. Il suo legale, Khin Maung Zaw ha detto alla Reuters che la Lady, tre suoi ministri e il consigliere economico australiano Sean Turnell sono stati accusati una settimana fa da un tribunale di Yangon.

QUANTO ALLA PROPOSTA della giunta alle autonomie regionali per una tregua, non è chiara la portata dell’annuncio di mercoledi sera: «Abbiamo visto la notizia sui social – dice il generale Naw Bu del Kachin Independence Army (Kia) a Myanmar Now – ma non ci sono conferme sul campo». Ci sono invece conferme del contrario perché ieri 20 soldati sono stati uccisi e quattro camion militari distrutti negli scontri tra Tatmadaw e Kia. Combattimenti nel Nord che arrivano dopo i raid aerei contro postazioni della Karen National Union (Knu) nell’Est: almeno 7.000 sfollati – scrive Mizzima – di cui 2500 fuggiti in Thailandia che però li ha rispediti indietro.

I MILITARI HANNO ANNUNCIATO un cessate il fuoco unilaterale dal 1 al 30 aprile, per negoziare con le autonomie e celebrare la festa nazionale Thingyan, ma precisando che continua la «difesa da azioni che minano la sicurezza e l’amministrazione». Tregua o non tregua, ormai il fronte militare con le autonomie è aperto: coi Karen, i Kachin, gli Shan e con gruppi minori come Arakan Army (AA), Ta’ang National Liberation Army (Tnla) Myanmar National Democratic Alliance Army (Mndaa).

L’inviata speciale dell’Onu Christine Schraner Burgener, che ha già messo in guardia su un imminente «bagno di sangue», paventa la «possibilità di una guerra civile senza precedenti». Ma le sue parole non hanno fatto breccia all’ennesima sessione del Consiglio di sicurezza dove non si va oltre la «preoccupazione» e la condanna della violenza ma senza parlare di golpe e senza prevedere azioni esemplari per il freno tirato da Russia, Cina, India e Vietnam.

MA È ANCHE VERO che la preoccupazione sale soprattutto ai confini che la Cina avrebbe sigillato, forse paventando esodi di massa se la guerra civile cominciasse ad espandersi. Secondo fonti citate ieri da Irrawaddy, truppe cinesi si starebbero ammassando a Jiegao, di fronte alla città di Muse, sul confine dello Stato Shan. Secondo il canale di Taiwan TvbsNews, i cinesi vogliono difendere le strutture del progetto del doppio oleodotto (gas e petrolio) lungo 800 km da Kyaukphyu, nel Rakhine (Golfo del Bengala), alla Cina attraverso le regioni di Magwe, Mandalay e dello Stato Shan. Pechino continua intanto a guardare all’Asean, l’associazione regionale del Sudest per una possibile mediazione e questa settimana i ministri degli esteri di Malaysia, Indonesia e Filippine dovrebbero incontrarsi col capo della diplomazia cinese Wang Yi in Cina.

Prosegue intanto l’attività di diversi membri del parlamento deposti, per lo più della Lega di Suu Kyi, che hanno proposto una democrazia federale, rispondendo così alla richiesta di autonomia che da tempo viene dalla periferia. Mercoledì, il Comitato per la rappresentanza del Parlamento (Pyidaungsu Hluttaw-Crph) ha annunciato di aver fatto carta straccia della Costituzione del 2008 voluta da Tatmadaw.

INFINE RESTANO SENZA RISPOSTA le interrogazioni parlamentari sui bossoli dell’italiana Cheddite trovati in Myanmar. Visto che l’azienda tace, Amnesty Italia, Rete Italiana Pace e Disarmo, Opal e Atlante delle Guerre spingono perché il ministro Di Maio risponda in Parlamento.